“La felicità è reale solo quando è condivisa…” Con queste parole si chiude un film magnifico firmato da Sean Penn e vincitore della sezione Premiere della Festa del Cinema di Roma. Queste parole mi hanno colpito come una scarica elettrica, e non perché fossero particolarmente belle o chissà. Perché da quel momento tutto mi è parso più chiaro.
«Into the Wild» è un film splendido. La regia lirica di Sean Penn, le musiche discrete e penetranti di Eddie Vedder, la storia di una ribellione e di un viaggio che tutti noi vorremmo fare, ma che non abbiamo il coraggio di intraprendere. Christopher McCandless ha avuto quel coraggio e ha seguito fino in fondo la sua vocazione. Ha viaggiato senza soldi, ha conosciuto uomini e donne, ha preferito la solitudine dell’Alaska ed è morto solo. Il suo viaggio ha illuminato lo spettatore, lo ha reso cosciente dell’artificialità del mondo in cui vive, lo ha fatto ricongiungere per un po’ con l’autenticità della Natura e dei rapporti umani.

Eppure Into the Wild rimane a mio avviso un capolavoro mancato. E la sua mancanza, paradossalmente, risiede proprio nel personaggio protagonista, quel Chris McCandless interpretato da Emile Hirsch. Non per colpa dell’interprete, ma per colpa del suo fascino. Sean Penn vede in McCandless un personaggio quasi mitico, un’icona della rabbia giovane e della ricerca della purezza, arriva a “venerarlo” cinematograficamente. Costruisce il film su di lui, non lo perde un attimo e lo segue fino in fondo. Lo guarda dolcemente arrendersi di fronte alla forza prorompente della natura selvaggia. E come spesso capita quando si raccontano i “santi” o i “miti”, la narrazione si dimentica dei lati oscuri, ruvidi, imperfetti del personaggio. Ed ecco che mentre guardo la ribellione di McCandless non riesco a togliermi dalla mente il personaggio di Timothy Treadwell del documentario di Werner Herzog Grizzly Man e soprattutto Jack Nicholson in Cinque Pezzi Facili, quel Robert “Eroica” Duprea che trent’anni prima era stato icona di quella stessa rabbia giovanile che luccica in Chris McCandless. Tuttavia Duprea era cupo, teso; la sua ribellione, il suo disgusto per la società borghese rappresentato in primis dalla sua famiglia era segnato da una fortissima tensione emotiva, dall’incapacità di adattarsi. Per questo motivo non poteva restare, doveva fuggire, viaggiare, anche a costo di ferire delle persone che amava. McCandless fa un viaggio simile che lo porta prima tra gli uomini (i momenti con Vince Vaughn e con gli hippy) e poi nelle terre selvagge, da solo. Ma la sua tensione dov’è? Da dove sgorga la sua follia, il suo disgusto per la società (e anche qui per la famiglia)? Soffre? Fa soffrire sul serio?
Forse, ma non ne siamo sicuri. Il motivo è semplice: Sean Penn si affida alle frasi fatte dei libri preferiti di Chris, da Tolstoj a Byron, per raccontare questi sentimenti. E questo risulta un pochino intellettuale, freddo. Chris è troppo puro per poterlo amare.

Chi ha amato il film si faccia una domanda: ho amato Chris oppure ho amato l’idea di Chris, la sua utopia, il suo viaggio? Per me la risposta è la seconda e ancora mi dispiace che sia così.

A pochi secondi dalla fine, però, ecco la scarica elettrica: “La felicità è reale solo quando è condivisa…”. In punto di morte Chris scrive queste poche parole, quasi come se volesse rifiutare di entrare nel mito con un ammissione di debolezza: il suo personaggio esplode solo negli ultimi istanti in tutta la drammatica complessità che fino a quel momento non siamo riusciti a sentire. Ed è quella frase che ti rimane dentro, perché è vera, è genuina, è umana. Chris non è più un idolo, ma un ragazzo. Peccato che quest’umanità sbocci solo così tardi: se avesse percorso come un filo di lana tutto il film, non starei qui a parlare di capolavoro mancato, ma di un capolavoro e basta.