Indagando sulla causa dell’infelicità umana, il poeta Giacomo Leopardi conosce varie fasi di vero e proprio pessimismo, fino ad approdare a quello comunemente denominato “cosmico”. E’ una teoria che addita la Natura come principale artefice dei disagi dell’uomo: essa è una despota che impone al proprio popolo le pene quotidiane del mondo con l’ausilio di Malattia, Morte e Povertà, forze così potenti ed invincibili da costringere il singolo individuo all’abbattimento morale. Il disagio di Leopardi nei confronti del genere umano trova rifugio, allora, nella solitudine e nella meditazione che lo accompagnano nella riflessione sulla propria condizione terrena.
La ricerca introspettiva accomuna numerosi artisti e forse proprio per questo li rende profondi a tal punto da spingere la conoscenza dell’animo umano fino a livelli impensabili per i comuni mortali. Possiamo mettere a confronto l’attore britannico Charlie Chaplin con la poetica di Leopardi, sottolineando sia gli aspetti similari quanto le difformità concettuali. Analizzando la vita del maestro della pantomima attraverso il cartaceo e le pellicole, si nota come, anche in lui, esista una sorta di pessimismo; tuttavia, se Leopardi rinforza il proprio malessere attraverso le opere letterarie con toni sempre più cupi, Chaplin cerca di sdrammatizzarlo ridendoci sopra. Le comiche chapliniane poggiano solitamente su un argomento tragico, nel quale la comicità prende rapidamente il sopravvento su di esso mentre, al contrario, nella vita di tutti i giorni è il dramma che si intrufola spezzando gli attimi di spensieratezza. Ciò non rispecchia la natura dell’artista anglosassone, per cui l’atto di sdrammatizzare è essenziale sia nel privato che nel personaggio del vagabondo.
Lo stretto punto di contatto tra il pessimista cosmico e quello che si potrebbe definire pessimista “comico” si trova nella continua presenza di una malinconia recondita. Persone molto schive e “amanti” della solitudine, Leopardi si è sempre rifugiato a comporre versi e Chaplin raramente si concedeva serate mondane. Il “vagabondo per eccellenza” è un timido: un uomo riservato che sfugge alle interviste per l’imbarazzo che la situazione potrebbe creare. Solitudine significa scoprire se stessi. Svestirsi delle apparenze e restare nudi di fronte alla nostra vera natura. Rivelarsi per ciò che si è, con tutte le fragilità che appartengono all’inconscio freudiano. Nell’eremo, Chaplin esplora la propria intimità: appare la nostalgia di un passato sempre presente. Ridondanti appaiono i ricordi di un’indigente infanzia e, non a caso, il suo famoso personaggio è uno squattrinato. Come se la sua forma nostalgica si fosse trasformata in qualcosa di tangibile. Ed ecco che instancabili reminiscenze recitano nei panni del piccolo ometto e nello stesso tempo perseguitano il suo creatore. Dall’altra parte troviamo Leopardi che “rimembra” Silvia nel suo celebre canto di gioventù, una gioventù ormai svanita. Rivolgendosi alla sua musa ispiratrice, lo scrittore marchigiano domanda con tono retorico e disperato: “Questo è il mondo? Questi i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi, onde cotanto ragionammo insieme? Questa la sorte delle umane genti?”
Come per il poeta disilluso, anche per Chaplin il pessimismo non si concentra solo sulla propria persona ma si estende al di fuori. Egli nota che il mondo sta andando nella direzione sbagliata: colpa di un sistema “disumano” a cui lui non sente di appartenere. “Tutti noi esseri umani dovremmo aiutarci sempre, dovremmo godere soltanto della felicità del prossimo, non odiarci e disprezzarci l'un l'altro”. Le parole del Grande Dittatore, sempre ricordate con grande commozione dalla critica cinematografica e dal pubblico, rappresentano la parte più profonda dell’artista Charlie Chaplin. Se ci inoltriamo oltre il personaggio del Fuhrer, se proviamo a smascherare la sua finzione, troviamo un uomo introverso, per certi versi anarchico e con dei sentimenti in realtà piuttosto comuni. Dietro la maschera c’è un essere umano qualsiasi e la sua innata inquietudine. In totale discordanza con Chaplin, nel “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani”, Leopardi racchiude il suo pensiero filosofico sulla politica analizzando la società illuminista di cui fa parte: con il secolo dei Lumi si sono smarriti i valori umani: il rispetto, la generosità e tutti i vezzi paragonabili a quelli di un cavaliere dall’armatura stilnovista. L’operetta si rivolge alle classi alte, ai potenti, ai moralmente nobili: solo loro possono “salvare” il mondo dall’oblio.
Ridere in mezzo alle afflizioni non è semplice, ma Charlot riesce nell’intento. Donando un po’ di sollievo all’uomo solo, a chi soffre per amore, a chi deve tirare la cinghia. Il potere della comicità supera la sopraffazione del dolore; colui che veste i panni di quel buffo personaggio dai piedi storti e dal cappello striminzito ci insegna come sia fondamentale sdrammatizzare di fronte alle vicissitudini della vita. Chaplin stesso esorcizza il proprio malessere prendendo il mondo sul ridere e girando film a sfondo comico. Per l’omino con i baffetti è importante contare le monetine raccolte nel suo cappello, ma è fondamentale raccogliere le risa del pubblico. Proprio per questo motivo, il Little Tramp in incognito è solito sedersi in sala per la prima di una sua opera così da testare in prima persona il divertimento degli astanti. Più le risate sono fragorose, più Chaplin sente di essere socialmente utile. Come se la sua fosse una missione da compiere. Gli albori della vita letteraria di Leopardi sono pervasi da un civile patriottismo; la canzone “All’Italia” è un perfetto esempio di evidente richiamo ai valori della patria. Successivamente passa all’avvilimento e alla disillusione. La sua missione finisce presto.
Leopardi è schiacciato dalle istituzioni. Dalle sue produzioni si percepisce un senso di resa incondizionata. Il grande verseggiatore abbandona ogni auspicio, vinto dalla Natura. Chaplin, nonostante attraversi un’epoca di controversie, non cede alle prevaricazioni della società. Combatte il maccartismo ed esterna il suo sentimento negativo verso la guerra. Le sue pellicole possono anche definirsi “operette morali” proiettate sullo schermo: dove la satira diventa il caposaldo dell’arte chapliniana. L’immagine del vagabondo che si ribella al sistema rispecchia esattamente il pensiero di Chaplin adolescente. Tutto quello che avrebbe voluto fare o dire si riversa in migliaia di scene girate, dando vita ad una sorta di risarcimento per le pene passate soprattutto in età giovanile. Contrariamente alla vita di Chaplin, il giovane Leopardi non vive particolari disagi economici. Piuttosto il vero dilemma adolescenziale è la solitudine. Nell’età in cui si deve scoprire il mondo, il poeta è privato della vita sociale e passa la maggior parte del suo tempo chiuso in una biblioteca.
Le sofferenze del vagabondo continuano anche nell’età adulta, e raggiungono l’apice nella vita privata di Chaplin con l’espulsione dalla cosiddetta Terra della Libertà: l’America. L’allontanamento dal Paese che gli ha dato tutto - e che poi gli tolse tutto - è uno degli avvenimenti più dolorosi per l’attore inglese. Il rapporto con gli Stati Uniti era sempre stato di amore e odio: tuttavia, il vagabondo d’oltre oceano sarebbe voluto rimanere nel luogo natio dove il radicato malessere veniva puntualmente alleviato da opere di celluloide fisse nel tempo. L’esilio rappresenta un lutto per il comico, un’ulteriore cagione di intimo sconforto che lo perseguiterà senza tregua. L’amarezza rifletterà la sceneggiatura degli ultimi due lungometraggi: “Un re a New York” e “La Contessa di Hong Kong”, ricorrendo costantemente ad uno stanco (quanto ancora tagliente) umorismo ad alleggerire l’esistenza dell’ormai vecchio Chaplin. Esiste anche una filosofia contraria, secondo la quale il fardello dell’esistenza incombe su coloro che credono nell’impossibilità di sopravvivere moralmente al proprio dolore. Leopardi è una delle massime espressioni di questo concetto: niente palliativi alla sofferenza. Non esiste una cura che debelli malinconia e tristezza, i mali non tangibili che affliggono ogni mortale spesso anche più della malattia fisica. Chaplin conosce un effimero rimedio: niente pillole, né terapie. “L’unico antidoto alla vita è la risata” recita l’inconfondibile mimo. E se l’innamorato di Silvia fosse vissuto contemporaneamente al precursore del cinema, forse le sue sofferenze avrebbero offerto quantomeno uno spunto di ilarità.