Io me lo ricordo bene. A Venezia, settembre del 2000. Presentava “Il dottor T e le donne”, e tra la calca agitata per la presenza in passerella di Richard Gere, noi impassibili a guardarlo. A cercare di scorgere, oltre quegli occhi, l’ultimo grande autore cubista.

Si fa omaggio ad un artista sempre ripercorrendo la sua opera. Vedendola, rivedendola.
Altman è il pittore più convincente dell’America contemporanea. Dei suoi vizi, dei suoi luoghi più comuni, e reconditi. E se – ed è giusto - si parla spesso di lui come di uno scardinatore di generi, questa operazione non è mai stata condotta come fine a se stessa, ma ancora nella direzione di affrescare l’America (di) oggi. I suoi vizi. Ed il suo delirio: per cui, se è vero che piuttosto che creare un universo mitico egli preferisce sconvolgerlo, o anche distruggerlo, ciò accade perché così, fatto dello stesso sconvolgimento, è il mondo. Ed è da notare che, a differenza di altri autori, Altman non propone alternative, non ha antieroi o altre forme di comportamento e stili di vita da contrapporre al cosiddetto sistema: la sua è una folla in solitudine: la morte di McCabe ne I compari ne è un chiaro esempio. Egli lavora con mezzi nuovi. Riconducibili ad un uso corale del cinema che mai si era visto prima. Un cinema cubista, capace di mostrare una koinè di facce, movimenti e storie. Cubismo che trova forse in Nashville (1975) il proprio acme: anche in forma concreta, con l’uso dello split screen, e dell’overlapping dialogue, ovvero della indifferenziata sovrapposizione di rumori, suoni, voci. Evitando sempre di proporre, attraverso questo continuo moltiplicarsi di prospettive, questo stile combinatorio, una personale lettura del mondo: ma lasciando sempre allo spettatore il ruolo di interprete attivo.
E’ molto ironico il modo in cui in Italia è stato intitolato The Player: ovvero I protagonisti. Perché di protagonisti reali, nel mondo di Altman, non ce ne sono quasi mai. Ma se può consolare, nemmeno di comparse. Un immenso mosaico di tessere, piccole ma indispensabili, ognuna, al raggiungimento della perfetta immagine: questa la realtà altmaniana. E l’incontro con Raymond Carver, dunque l’uscita del meraviglioso America oggi (ma gli preferiamo il titolo originale, Short Cuts, che meglio esprime la particolare fattura del film) è certamente emblematica dell’unica divinità preposta al governo ed al movimento dei mille fili intrecciati: il Caos. Anche se, a ben guardare, Altman è autore del Caos, è lui a dargli movimento, vita, rappresentazione. Così non resta che farci prendere la mano, seguirlo per un attimo – il tempo del film – entro il suo labirinto. Consci dell’impossibilità di raggiungerne il centro: ovvero il senso ultimo. Ed è importantissima un’osservazione fatta dalla critica americana negli anni’70: l’origine del Caos descritto dall’autore non può essere che mitologica, ed è naturale allora servirsi dei Generi, cioè degli elementi veramente fondanti del cinema americano. Per poi scardinarli, smascherandone le falsità. In modo da risalire veramente all’origine stessa della materia trattata, e poi creare una nuova epica, che non è altro che la messa in crisi della prima.
Così, individuando un percorso ideale nella filmografia del regista, partiamo da M.A.S.H. (1970), brillante farsa antimilitarista che già inaugura la dimensione “strutturale” del cinema di Altman, intessuto di relazioni pregnanti attraverso le quali è tratteggiato l’impossibile mestiere di vivere. L’uso dell’improvvisazione, anche questa vera e propria cifra stilistica del regista, è fin da questo film scelto in maniera massiccia: il Caso, il Caos (che non ne è solo fortuitamente l’anagramma) emergono così in maggiore libertà. I film successivi confermano il regista come uno dei più grandi del cinema moderno americano, sconvolgendo la logica dei generi e mostrando, finalmente, un nuovo stile. I compari (1971) ritocca il western, analizzando la logica capitalistica ed evidenziando l’importanza del “contesto” entro il quale la vicenda si svolge: realtà che era rimasta solitamente fuori campo nel grande western classico. Così gli abitanti della cittadina mineraria dove McCabe apre il bordello assumono il ruolo di protagonisti, perdendo quello, per anni affidatogli, di volti e caratteristi. In un realismo mai visto prima, basti pensare all’insistenza della neve. Images (1972) vede l’autore scegliere uno sperimentalismo formale elevato. Il lungo addio (1973) rinnova il poliziesco, in una vicenda dove sono i personaggi a contare davvero, e non l’intreccio. Tanto che il regista osservò ironicamente come l’unico mistero reale del film fosse la scomparsa del gatto che si vede in una delle scene iniziali. California Poker (1974) è una delle commedie più divertenti sul tema del gioco, e la scomposizione del racconto è attraente. Con Gang (1975) Altman si appropria del ganster movie. Di Nashville già si è detto, e mai si finirebbe di dire: il sogno americano si fa Incubo, e gli Stati Uniti diventano la società dello spettacolo per eccellenza. La cronaca locale (il festival canoro di musica country ed i 24 personaggi che vi ruotano attorno) esprime l’intera anima del popolo americano. E non solo: Altaman parla anche di noi. Buffalo Bill e gli indiani (1976) smonta la leggenda di Buffalo Bill, de-mitizza il mito originario americano. In un circo: come già il mondo di M.A.S.H e di Nashville lo erano, come di realtà circensi si potrà parlare per Pret-a-porter, America Oggi, Radio America. Con Tre donne (1977) Altman struttura una grande metafora della desolazione americana attraverso una trinità esclusivamente femminile. Un matrimonio (1978) sposta il tendone circense nella sontuosa villa dove si sta per celebrare la cerimonia nuziale che unirà i rampolli di due ricche famiglie: 49 personaggi sfilano in scena. Con Quintet (1978) Altman gioca con la fantascienza, e si avvicina agli anni’80, solitamente considerati un decennio poco produttivo, ma che vede almeno un film interessante: Jimmy Dean, Jimmy Dean (1982), assurda ritualità, quasi necrofilia, attorno alla figura di James Dean. Gli anni’90 segnano la rinascita: ne I protagonisti (1992), descrive satiricamente Hollywood, (la stessa Hollywood che non lo ha mai premiato con un Oscar, tranne quello alla carriera del marzo scorso) e l’incapacità dei tanti produttori che, incapaci di fantasia, pensano solo alla propria carriera. America Oggi lo segue, e riesce nell’intento di creare una “commedia umana dove si può trovare di tutto, come nella vita”. Tra il minaccioso volo di elicotteri iniziali ed il terremoto che lo conclude, il film sviluppa un incredibile intreccio di personaggi e situazioni variando continuamente registro, ed ancora una volta, limitandosi a raccontare, talvolta a partecipare, ma senza invadere il giudizio dello spettatore. Ed ancora evidenziando il nervo scoperto della società: cioè la profonda contraddizione in atto tra l’individuo e le strutture economico-sociali che lo circondano. Il resto è ancora grande cinema: Pret-a-poter, (1994), sul mondo-circo della moda; La fortuna di Cookie (1999), con la grande distinzione tra la superficie e la profondità delle cose, riassunte dal fiume, sulle rive del quale la vicenda si muove; Gosford Park (2001), che impiega il giallo alla Christie per la descrizione di una umanità dolente ed in preda ai medesimi vizi, sia essa dei padroni che dei loro servitori. The Company (2004) sceglie di descrivere il mondo della danza, e prepara il campo al meraviglioso testamento di Radio America (2006), presentato umilmente in concorso all’ultimo festival di Berlino.