Non si può che rimanere intrappolati nella tela di ragno visionariamente intessuta da David Cronenberg e Ralph Fiennes in Spider. Il regista canadese, uno dei più originali e provocatori autori del panorama cinematografico contemporaneo, gira il suo film più scopertamente psicoanalitico. Un incubo strisciante e pervasivo che declina silenziosamente, con perfezione minimalista, tutti i temi e i generi che hanno segnato le sue opere.
L’horror, l’angoscia della mutazione corporea che conduce alla morte, lo smarrimento nella virtualità del mondo si traducono, in Spider, nel morboso labirinto dell’inconscio. Un orrore primario, freudiano, una follia tutta racchiusa nella mente del protagonista.
Mister Cleg (che in inglese vuol dire “tafano”, altro nome d’insetto, simile alla mosca), soprannominato Spider (“ragno”) dalla madre quand’era bambino, torna sui luoghi della propria infanzia, una Londra livida e periferica. Malato di schizofrenia, dopo anni di cura in un asilo psichiatrico, viene trasferito in uno di quegli squallidi posti dove la follia si rifugia, per lasciare in un’asfissiante sordina tutto ciò che è diverso.
Spider è completamente perso in un mondo parallelo che Cronenberg ci mostra con sconvolgente aderenza, lasciandoci soffrire nella claustrofobia della pazzia e le sue frasi sconnesse, i suoni insensati, i gesti imprevedibili. Fuori è un paesaggio dell’abbandono, un orrore della povertà industriale che trasforma i suoi ruderi in mostri metallici, minacciosi. Dentro è un viaggio della psiche verso traumi infantili: Spider rivive, guarda e si crea il proprio passato, lo annota febbrile in un quadernetto con geroglifici indecifrabili.
Lui bambino rivede la sua casa, la mamma angelo che gli vuole bene e si sacrifica nelle faccende domestiche; il padre ostile, amante dei pub, il fumo, l’alcol, le donne volgari che Spider sfida per chiamarlo quando la cena è pronta. Poi, la scoperta del sesso. La visione del padre che avvinghia la madre si confonde con un atto di violenza: ogni cosa cambia. Una laida prostituta prende il posto della mamma scomparsa, il padre è trasformato in un assassino. Il volto ora amorevole ora corrotto di Miranda Richardson attraversa tutti i visi femminili che si alternano nella storia, in una metamorfosi ambigua e disorientante.
Tratto dall’omonimo romanzo di Patrick McGrath (autore anche della sceneggiatura), Spider è un film capace d’avvolgere lentamente nella propria tela di ragno, magistrale metafora della malattia mentale che giorno dopo giorno tesse i suoi fili, imprigionando silenziosamente, sospeso sulla realtà, chi ne è catturato. Un doloroso viaggio, allucinante e allucinatorio, nei meandri di un labirinto in cui la ragione ha perso la direzione, non riesce più a far combaciare i pezzi del puzzle, si aliena tra i fantasmi edipici del passato, i ricordi e le parole tormentosamente rimasticate, i traumi da sdoppiamento degli inseparabili.
Seguendo il modello insieme realistico e onirico della scrittura di Franz Kafka (cui è debitore di molti spunti), Cronenberg costruisce un film d’una furia quieta e sepolta sottopelle, persa nello sguardo inquietante e dolente di un Ralph Fiennes sublimemente monomaniaco, laconico come una marionetta beckettiana, assediato cinematograficamente da cangianti fantasmi hitchcockiani. Miranda Richardson, per la camaleonticità con cui attraversa la storia, ne è lo speculare contraltare.
Insieme spalancano il baratro che è alle spalle della normalità, intorbidandola in maniera insinuante e perturbante come un brivido notturno.