Vedere un film, guardarlo, perdersi con lo sguardo nell’infinità delle immagini in movimento, seguire il percorso che arriva a noi dopo vari passaggi filtranti, rielaborativi, manipolativi, di accostamento…
Il film è di per sé una deformità, della vita certo, perché ne simula le fattezze e non ne ripropone mai la realtà, ma anche della visione, perché anche se la vita fosse documentata sarebbe comunque filtrata, inquadrata e quindi, anche se molto simile, sarebbe inevitabilmente deforme.
Ci rechiamo al cinema per distrarci, per svago, per essere partecipi di qualcosa che ci estranei dalla realtà per un paio d’ore, che ci racconti un mondo parallelo, deformato, che non ha forma nella vita quotidiana, col suo linguaggio illogico, legato a regole e schemi che non hanno senso al di fuori dei confini geometrici dello schermo rettangolare, una sorta di recinto costrittivo. Guai se tutto ciò uscisse fuori, se quella deformità debordasse come un blob vischioso e avvolgesse la realtà: chi ne fosse coinvolto sarebbe emarginato dalla società, dichiarato pazzo, si direbbe di lui che “si fa i film in testa”.
Usciti dalla sala, tutto torna come prima. Quella deformità a cui abbiamo assistito più o meno consapevolmente è un carnevale, una ricorrenza settimanale in cui ci si maschera da chi non saremo mai, un eroe o una caricatura, per sognare o sbeffeggiare. La vita si deforma, acquista cioè nuove forme, per tutti i gusti e per tutte le età. Questa deformità della vita ci viene violentemente proposta – ricordate Arancia meccanica di Kubrick? - sottoforma di deformità della visione.
In realtà si tratta di una deformità di visione per il mittente, per chi la costruisce secondo una propria visione, e di visione deformata per il ricevente, per chi invece ne usufruisce, o ne subisce a seconda delle proiezioni. Quest’ultima visione può anche complicarsi a causa della deformità del visibile. Un ostacolo di fronte ai nostri occhi (la testa di chi ci sta davanti), una malformazione della vista (la miopia), difetti della pellicola (salti, tremolii, sfocature), sono tutte deformità del visibile, ostacoli, cioè, che deformano ciò che si guarda, arrivando, in alcuni casi, ad occultare intere porzioni del visibile fino a raggiungere l’estrema conseguenza dell’in-visibile. L’invisibile è qualcosa che non si riesce a vedere, che c’è ma che non riusciamo a percepire. Ne è un esempio il difetto di trasmissione, la visibilità di un film proiettato in TV che si interrompe per inconvenienti tecnici: da qualche parte il film continua la sua visione, ma la nostra visibilità è pari a zero.
Il progresso migliora la vita aumentando le comodità e facendo del nostro salotto un cinema privato. L’home video è stato la vera rivoluzione della visione casalinga, ma anche il capostipite della deformità del visibile. Il nastro è destinato alla decomposizione e un film, a distanza di anni, si deforma, inizia a sciogliersi in altre forme di colore, aumenta di pastosità e si arrossa. Una mutazione magnetica, un quadro che affogato nell’acqua rilascia macchie di colore. La tecnologia è eternamente impegnata in una lotta intestina tra corruttibilità delle sue forme, garanzia di un sicuro rinnovamento, linfa vitale per le leggi di mercato, e l’eternità del prodotto che vive di vita propria, un androide migliore dell’uomo perché immortale. Il digitale ha dichiarato guerra alla deformità dell’analogico, tanto che le fastidiose righe galleggianti che solcano lo schermo, segno distintivo di un nastro sciupato e praticamente da buttare, hanno lasciato il posto ai più rassicuranti drop a scacchi i quali, se non altro, confermano l’utilizzo di nuove apparecchiature. Ma è il DVD, il perfetto tondo di Giotto, la metafora della perfezione greca del discobolo, che si impone sulla deformità del cassettone VHS il quale, se premuto di lato, si apre in una nuova forma e mette in mostra tutta la fragilità del nastro grigio. Il magico disco può essere anche deformato scrivendoci sopra, ma non perderà mai la sua qualità riproduttiva.
Eppure, anche se il visibile fosse perfetto, lo spettatore non sfuggirebbe alla deformità che, come abbiamo visto, è anima motrice del fare cinema. Comunque sia assisteremmo ad una visione deformata della realtà, ad una vita di celluloide che non ha niente di umano. Diremmo indignati, se non la considerassimo arte, che ci troviamo di fronte ad un falso, ad una menzogna, ad una realtà ricostruita che spesso e volentieri non dice il vero, che ci illude che l’uomo possa compiere certe azioni di per sé inimmaginabili. Solo per il fatto che ne accettiamo le regole e ci assicuriamo che siano valide in determinati spazi (le sale cinematografiche, appunto), ci lasciamo coinvolgere dal gioco, tanto da esserne alle volte felici. Sono regole che hanno la deformità come dogma, nelle sue varie sfaccettature ed estremismi, e non sempre possono essere digerite con facilità.
Oggi diciamo che lo spettatore è smaliziato, ha assorbito così bene le regole del gioco che può sciogliere e ricomporre mentalmente anche le deformità narrative più complesse, che hanno la coda al posto della testa e la testa al posto della coda, una sorta di mostro tanto orribile quanto affascinante. Ma ci sono voluti decenni prima che la visione potesse riuscire anche deforme e non sempre, ancora oggi, una tale mostruosità trova unanimi consensi. Spesso alcuni film sono destinati ad un pubblico di nicchia proprio perché quella separazione tra vita reale e finzione è troppo sottile e, all’apertura delle porte alla fine della proiezione, inevitabilmente un po’ dell’una si rilascia nell’altra, contaminandola, come la peste bubbonica di cui si ha terrore. Seguire il deforme, trarne piacere, è insano, diseducativo, al di fuori della Legge di Dio. Censura e Chiesa sono i portavoce del moralismo comune che vede nello spettatore un supino visionatore, una pecorella smarrita alla quale è meglio far percorrere una retta via anziché una strada tutta curve, che si snoda per sentieri tortuosi alla scoperta di luoghi inaccessibili dove si nascondono i segreti più inconfessabili.
Chi ha detto che la deformità è orribile? Il volto deturpato, rigonfio, deforme appunto, di The Elephant Man non nasconde forse un animo gentile? Quella faccia, quella metafora della società che è in perenne mutazione, politica e genetica, ci insegna che quella deformità della vita che è il cinema, in realtà, usa le stesse armi della vita stessa, cioè la sua naturale mostruosità nel senso di non umanità. È più propriamente una deformità di visione, e cioè un linguaggio che ha la necessità di essere deforme per poter raccontare per immagini la vita. Chi si appresta a creare una storia filmica sa che dovrà farlo tradendo il concetto di esistenza. Ciò che descriverà sono dei brani dell’esistere, dei momenti che insieme devono dare il senso del tutto. In realtà il prodotto finito è un oggetto fatto di monconi di vita fasulla, registrata ed elaborata successivamente in laboratorio: il regista è l’artefice della creazione di un mostro, un aborto, una creatura terribile ma, se ben riuscita, micidiale, che non da scampo. Ed egli, oltre a poter usufruire dell’aiuto incondizionato di molti complici, ha la facoltà di avere a disposizione praticamente qualsiasi mezzo per poterlo creare.
Alle deformità narrative si affiancano le deformità di immagine, ovvero il risultato di una tecnica che si è andata perfezionando negli anni e che ha il suo cavallo di battaglia in quello che viene denominato effetto speciale. Le immagini proiettate non rispecchiano mai ciò che erano in realtà: sono ormai delle deformità. In fase di ripresa sono state fotografate e catturate con obiettivi, teleobiettivi, grandangolari, fish eyes. Poi, in post produzione, sono colorate, manipolate, sintetizzate. Infine sono mixate e proiettate. Ciò che ri-vediamo non è la stessa cosa che abbiamo visto, ma ha assunto un’altra forma. Infatti, quella nuova forma, non fa parte di noi e della nostra vita, della nostra memoria, ma di chi l’ha deformata. Appartiene a qualcun altro che ce la ripropone con un nuovo significato. Si può parlare, cioè, di deformità di linguaggio per cui la distorsione è funzionale ad una logica da leggere, interpretare, capire. Non a caso ci si chiede se un film sia stato capito, se il regista abbia usato un linguaggio comprensibile, se la critica è favorevole o meno a una data interpretazione. Comunque sia, si tratta di decifrare una deformità in quanto altro dalla vita e che ha al suo interno una nuova anima.
Parlare di cinema è sempre e comunque parlare di deformazione, di asimmetria, di instabilità. Non esiste un regista che non metta in scena le proprie deformità mentali, le proprie incongruenze. Ma come abbiamo visto, come se fosse contagiosa, la deformità si manifesta in ogni angolo della visione. Non potrebbe essere altrimenti se si afferma che ognuno ha la propria visione dei fatti. Niente è più deforme di qualcosa visto da cento occhi. Se ogni visione potesse essere riassunta in una sola si otterrebbe una realtà polimorfa, in continuo mutamento, una mostruosità cangiante e deforme, ma molto più vicina alla verità che la realtà stessa.
La realtà non è una sola e il cinema lo dimostra.