Lunedì 30 Luglio, il caro Ingmar Bergman, gigante del cinema e del teatro, ha lasciato per sempre Farö, l’isola svedese in cui da anni dimorava e che molti hanno visto come un ulteriore rifugio in cui “nascondersi” dopo la morte della moglie Ingrid von Rosen, avvenuta nel 1995, dopo più di vent’anni di matrimonio. Con essa ha lasciato il mondo intero. Sembra quasi che giornali e telegiornali abbiano parlato più della sua fama di sciupafemmine, che della sua maestosità di regista scandinavo.
E’ vero, si, Bergman ha avuto numerose relazioni con le donne, attrici spesso, con le quali lavorava, ma a posteriori potremmo evidenziare, invece del legame d’amore, quello professionale e poi d’amicizia con un cast di attori, quasi sempre gli stessi, che lo hanno seguito nelle sue evoluzioni cinematografiche e nelle rappresentazioni teatrali. Non per niente, a morte avvenuta, la stampa e le Tv si sono interessate, più che ai familiari, alla testimonianza degli attori, dei suoi attori: Erland Josephson, Liv Ullmann, Bibi Andersson, Ingrid Thulin…

E poi, in Italia, il giorno seguente è venuto a mancare un altro importante cineasta qual’era Michelangelo Antonioni e Antonioni giocava in casa e allora via con la programmazione-commemorativa di un regista che in televisione si vedeva poco e niente. Sembra che le Tv aspettino la morte dei registi per sfoggiare il buon materiale cinematografico del quale sono in possesso. Al vecchio Bergman non è spettato neanche questo, vedendosi rubare subito la scena dal collega italiano, autore di road-movie che di italiano non hanno quasi niente.
Era Bergman colui che con una inquadratura faceva trapassare tutta l’intensità e la pesantezza di un clima di famiglia matriarcale e triste, con un solo sguardo inquadrato passava dallo schermo il senso di ciò che l’attore pensava, un sentimento, una preoccupazione, una gioia, tutto ciò che alloggia nelle nostre vite interiori e per il quale tutto egli non aveva bisogno di aggiungere parole, bastava la combinazione dei fatti e la miscela delle immagini, studiate con cura.

Le storie di Bergman erano pesanti in quanto colme di significato e anche le commedie, poche per il vero, non peccavano mai di superficialità.
Sempre diviso tra cinema e teatro, “il cinema è stato per me un amante, il teatro una moglie fedele” diceva, anche quando aveva annunciato il suo testamento per il grande schermo, Funny e Alexander (1982), poi non seppe resistere a produrre ancora e ancora; ultimo suo lavoro è Sarabanda (2003), a mostrare i protagonisti di Scene da un matrimonio (1973) trent’anni dopo, invecchiati e maturati.

Come Bergman disse a Woody Allen, aveva paura di morire in un giorno molto, molto assolato e così, profeticamente, è successo, ma la sua eredità artistica non può essere cancellata.