Ho visto l’ultimo film di Kim Ki-Duk, L’arco, ieri sera nella piccola sala deserta del cinema del mio paese: ho contato cinque persone, tre delle quali, come me, prive di compagnia. Appunto queste brevi note perché rientrano, anch’esse, nel giudizio critico.
L’ultimo (capo)lavoro del regista coreano è una bella favola: e d’altronde l’uso di situazioni tipologiche, intrise di pregnanza simbolica è oramai la sua cifra stilistica, almeno fin dal film con il quale l’ho conosciuto, a Venezia, cinque anni fa: L’isola, ed era, a ben pensarci, già una dichiarazione di poetica. Oggi, dopo due film eccezionali come Ferro 3 e Primavera, Estate, Autunno, Inverno…e ancora primavera, il legame tra il primo e l’ultimo film di questo arco cinematografico a dodici corde, come apprendiamo dai titoli di coda, assume un valore ben diverso. All’isola si è sostituita la barca: un vecchio catamarano arrugginito, immobile invalido di mare, visto che il motore è andato. A bordo abitano due persone: un uomo ed una ragazza. Tra loro almeno due generazioni, ed un silenzio ingombrante, anche se privo di inquietudine. Ci si capisce attraverso la gestualità degli antichi – e dopotutto “il linguaggio è poesia fossile” -. L’uomo è un grande arciere, e l’arco, nomen-omen della vicenda intera, è veicolo eletto di linguaggio. Attraverso di esso l’uomo – continuiamo a parlare dei personaggi senza fornirne i nomi perché l’esemplarità della vicenda impedisce al regista una loro nominazione qualsiasi – legge il futuro, lanciando frecce dalla piccola barchetta-dependance verso la parete decorata di un Budda del catamarano: barchetta che è l’unica via verso il Mondo, naturalmente anche verso il suo linguaggio. Così il silenzio si fa scelta programmatica, dal momento in cui il dubbio di mutismo di uno dei due personaggi è fugato dalla prima profezia: che passa dalla bocca della ragazza, - che ne è parte integrante perché sospesa su di un’altalena posta nella perigliosa traiettoria delle frecce - , all’orecchio dell’uomo, e quindi dalla bocca di questo all’orecchio del pescatore che, ospite pagante del catamarano per una notte di pesca, cede alla tentazione del vaticinio. Ma l’arco è anche mezzo, perché attraverso di esso i pescatori intenzionati a corrompere affettivamente (pochi) o sessualmente (molti) la ragazza, vengono minacciati, e scacciati. Chiara sostitutio membris, e fin da adesso, la figura dell’arco acquisisce durante la vicenda una funzione nuova: si trasforma in un sublime strumento musicale. Naturalmente ad arco.
L’uomo, sapremo, ha trovato la ragazza bambina, e l’ha portata sulla barca, dove questa vive, da dieci anni ormai, separata dal mondo: al compimento dei 17 anni, l’uomo la sposerà. La ritualità e l’iterazione scandiscono la quotidianità: ogni sera l’uomo lava il corpo divino della ragazza. Poi i due vanno a dormire, in letti a castello: li unisce una stretta di mano. Al mattino, l’uomo si alza, prepara la colazione alla ragazza, poi raggiunge la riva invisibile, per raccogliere pescatori che, a pagamento, accederanno per una notte alla barca. Una vicenda realmente mitica, resa tale dalla perfetta iterazione che la caratterizza: sarà l’irruzione di elementi estranei ad incrinarla, quando, un mattino, tra i pescatori portati dall’uomo, giunge un ragazzo, di cui la ragazza si innamora.
E’ a questo punto che il regista orchestra i tre finali, uno di seguito all’altro, che si costituiscono come varianti del mito, e come tali lo distruggono o lo eternano. Comunque lo descrivono.
Il primo: il ragazzo si fa vaticinare il futuro dal vecchio, vuole saper se porterà via la ragazza. Poi fugge con lei sulla barchetta. L’uomo, disperato, fa un cappio al capo della gomena che lega la barchetta al catamarano, se lo mette al collo, e muore, suicida che trova realmente e miticamente la morte per impiccagione nella fuga della sua amata. Ovvero: l’irruzione del nuovo – il giovane ha portato uno walkman, nuova musica rispetto a quella eseguita dall’uomo – distrugge il mito e la sua circolarità.
Il secondo: la ragazza si accorge della corda tesa, fa invertire la rotta al ragazzo, e i due tornano indietro, trovando l’uomo provato ma ancora vivo. La ragazza comprende il suo vero amore, e la voglia di rinunciare ad un mondo mai visto, ma non per questo necessario. E sposa l’uomo. Ovvero: il nuovo non può che inclinare il mito, che comunque ritorna sempre a rinascere, perché più forte.
Il terzo: terminata la cerimonia di matrimonio, l’uomo scaglia con l’arco una freccia in cielo, poi si getta in mare, inabissandosi. La barchetta, pilotata da una forza invisibile, si accosta al catamarano, sul quale è ancora il ragazzo. Questo sale sulla barchetta, in tempo per assistere alla deflorazione della ragazza: la freccia cade tra le gambe della ragazza che, in un amplesso nel quale è l’unica parte visibile, perde la propria verginità, nella data e nel giorno che il vecchio aveva stabilito: ne è simbolo il camice bianco insanguinato. Poi è libera di amare il ragazzo, e di guardare con lui il catamarano affondare nel mare, cumulo di ruggine adesso inutile. Ovvero: il nuovo non distrugge il mito, ma lo amplia, lo rinnova, lo rende adatto ad ogni tempo. Così l’arco, già sostituto virile, si fa membro invisibile: la deflorazione, la perdita dell’innocenza non sono che metafore dell’ingresso del mito nella civiltà moderna, quella che il mito stesso ha contribuito a forgiare.
Nel parlare di mito, L’arco è un film poetico, e di poesia. Che ricorda Vivien Lamarque:

“Con un filo d’oro
la vorrei a me legare
poi, come prova d’amore,
la vorrei per sempre liberare”

Dicevo di cinque persone in un cinema di periferia: terminata la proiezione, ho avuto voglia di scambiare due parole con il signore più vicino. Gli ho chiesto del film, ma dentro di me volevo chiedergli “Come va?”.

Penso che lo intuisse.