L’ultimo giorno del mese di luglio è stato anche l’ultimo giorno di vita per un regista senza limiti di spazio e di tempo, un artista che costituisce a ragione un pilastro della storia cinematografica italiana: Michelangelo Antonioni.
Neorealista nelle prime opere, poi gradualmente intimista, antiparadigmatico, antinarrativo e infine emozionale, romantico, poetico, come nel recente Al di là delle nuvole diretto a quattro mani con Wim Wenders.
Antonioni fu tutto e fu più di tutto. Allargò il suo occhio di regista al di là del reale, al di là della ragione, al di là persino del sentimento, per esplorare i limiti (o non limiti) del tempo e dello spazio, le pieghe dell’interiorità umana, l’individualismo di una società spaventata dal futuro e segnata dal passato. E mai in questo suo percorso stilistico volle abbandonare quell’ambiguità che lasciò sempre qualche perché aperto, qualche domanda senza risposta.
Inizialmente era “solo” un neorealista. Uno che, camera in spalla e armato di pazienza (che al tempo – stiamo parlando della prima metà del Novecento – doveva davvero essere una grande, enorme pazienza), se ne andava in giro a riprendere il lavoro dei netturbini e dei pescatori, della gente del fiume. Così nacquero i primi corti-documentari: Gente del Po e N.U. - Nettezza Urbana.
Ma guardare alla realtà e al suo modo di essere, o per lo meno di apparire, presto non gli bastò più. E allora andò in cerca lo stato di crisi. Allora si sentì attratto dal torbido, dall’equivoco, dal disagio. Da ciò che si nascondeva dietro alla realtà, specie quella artificiosa fatta di lustri e merletti della borghesia urbana. Sono i tempi di Cronaca di un amore e de La signora senza camelie.
Ma ancora non gli bastava. Antonioni voleva di più. Voleva andare oltre le convenzioni sociali, oltre le epoche e oltre gli spazi. Per scovare l’individualismo puro, l’interiorità svincolata dal contesto, la possibilità prima e oltre la realtà. E così la sua ricerca va nella direzione de Il grido, o de I Vinti.
Fino a che incontra lei, Monica Vitti, la quale lo spinge verso un climax artistico che partendo da L’Avventura arriva fino a Deserto Rosso. E qui Antonio sboccia, in tutta la sua creatività, il tutto il suo saper essere regista che coglie ogni dettaglio, ogni sfumatura interiore, ogni ambiguità, ogni dubbio, ogni paura. Fino alla falsità, al ruolo dell’immagine nella società, come in Blow Up. O fino alla libertà, al suo stato puro o costretto, come in Zabriskie Point e Professione: reporter.
E’ con queste opere che Antonioni diventa internazionale e lavora con attori del calibro di Jack Nicholson, Maria Schneider e successivamente Malkovich, Perez, Weller, Marceau, seppur sempre rivolto ad un pubblico d’elite. Ed è sempre nel segno dell’ambiguità, dell’intimismo, della penetrazione dell’amore, che qualche giorno fa si è spento.
Ci saluta lasciandoci il ricordo di una donna che è bellezza e mistero, nel suo Identificazione di una donna. E poi ci saluta ancora parlando di amore, di sesso, di confusione, di inizi, di fini.
Gli ultimi titoli (troppo criticati, troppo analizzati razionalmente per essere l’opera di un uomo ormai segnato dalla vita eppure ancora impegnato a fare della buona arte, come poca se ne vede oggi in Italia), sono Al di là delle nuvole ed Eros – Il filo pericoloso delle cose.
Michelangelo Antonioni muore così. Ancora alla ricerca di ciò che sta dietro l’immagine. Nel tentativo di scoprire cosa esiste oltre, oltre la dimensione dell’apparenza, della realtà, dell’esistenza, della trascendenza.
Probabilmente qualunque parola detta da me, appena ventiquattrenne e appena agli inizi, così piccola nei confronti di un regista e di un uomo tanto grande, tanto importante, tanto oltre appunto, non sarebbe abbastanza per concludere questo articolo. Lascio allora parlare lui, lascio alle sue parole già così perfette la libertà di esprimersi, per capire che cosa cercava veramente, che cosa lo mosse nella vita fino all’ultimo respiro:

“Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine della realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà”.