Scriveva Nietzche: “la fantasia dell’artista produce di continuo cose buone, mediocri, cattive: solo il giudizio scarta, sceglie ed ordina il materiale disponibile”.
Una frase che, in generale, potrebbe essere usata per tutta la storia del cinema, ma F. Carpi, autore del libro, la utilizza riferendosi solo ad un determinato periodo storico: il dopoguerra in Italia.
Agli inizi del XX secolo, la realtà nazionale era così mediocre che non si poteva far altro che ignorarla o combatterla, soprattutto nelle sale di posa, dove la situazione si presentava più complessa del dovuto, poiché proprio il linguaggio della cinepresa costringeva i registi ad esprimersi drammaticamente ed a raccontare una storia.
Per questo motivo, e per sfuggire alla camicia nera, il mondo della celluloide si tinse di rosa adottando la commedia sentimentale ed il colosso in costume.
Successivamente, però, i colori “rosa e nero” del ventennio fascista furono spazzati via dall’avvento del Neorealismo: il quale distrusse i personaggi e riscoprì gli "uomini".
La macchina da presa iniziò così a scendere nelle strade e nelle piazze, a compiere quel lungo viaggio sentimentale, cha partiva dalla Sicilia ed arrivava fino al Po’, passando per Roma.
Proprio per le strade della capitale, ed in maniera quasi clandestina vennero girati alcuni capolavori della filmografia italiana: un nome su tutti “Roma città aperta”; film ammirato persino ad Hollywood, dove non si resero conto che quella fotografia irrepetibile era il frutto di un budget “misero”: infatti si girarono le scene, rese mitiche dall’interpretazione della Magnani, usando una pellicola scaduta.
Se il cinema del periodo fascista fu conformista e di evasione, quello del primo dopoguerra si caratterizzò per essere polemico e di attualità, ponendo l’accento sulla crudeltà, sulla violenza satirica, sulla desolazione, sul vizio ed infine sulla vigliaccheria.
Mentre in Francia si ebbe una produzione cinematografica legata al clima culturale dell’epoca, in Italia non ci fu mai un cinema letterario: il perché è da ricercarsi essenzialmente nei caratteri “forti” dei registi, che tracciarono, e seguirono per circa un trentennio, un percorso indipendente, ricco di una soggettività unica, che li portava a volte ad accettare la realtà, fino ad annullare se stessi, altre volte ad accettarsi integralmente ma a rifiutare il mondo circostante, passando così continuamente dall’estroversione all’introversione, e viceversa.