Il 64esimo leone d’oro della mostra del cinema di Venezia è andato nuovamente ad Ang Lee, per il suo film Lust, Caution. La pellicola, ambientata nella Cina degli anni 40, tra Shangai e Hong Kong, racconta una torbida storia d’amore tra un importante esponente politico, colluso con gli occupanti giapponesi, e una giovane ragazza appartenente alla Resistenza cinese.
Un film di grande raffinatezza stilistica, impeccabile dal punto di vista estetico, grazie a una magnifica fotografia (vincitrice anche dell’Osella d’oro) e a una grande interpretazione da parte di tutti gli attori. Ang Lee dunque si conferma senz’altro un ottimo regista, capace di guidare i suoi personaggi in modo magistrale, ma a mio avviso il suo cinema (più hollywoodiano che cinese) ha un grande difetto: i suoi film difficilmente riescono a restituire allo spettatore la grande forza drammatica delle sue storie. Spesso possono infatti risultare freddi, distanti, incapaci di portare lo spettatore dentro allo schermo e di trasmettergli una vera carica emozionale. La ricerca esasperata della perfezione calligrafica e della massima drammaticità rende i personaggi dei suoi film meno realistici e credibili, simili a delle vuote statuine senz’anima che scorrono sullo schermo. Le sue pellicole spesso eccedono nella forma e peccano nella sostanza, nel contenuto. Per esempio le tanto chiacchierate scene erotiche, che si inseriscono nel momento cruciale del film e dovrebbero costituire il culmine del pathos drammatico della vicenda, risultano di fatto un freddo esercizio di kamasutra, che alla lunga arriva ad infastidire. Insomma chi guarda si trova costantemente ad assistere da spettatore totalmente estraneo alla vicenda e una volta uscito dalla sala prova una sensazione di vuoto, di già visto, di inutilità.

E’ per questo motivo che la decisione della giuria, composta di soli registi, non convince. Un Festival cinematografico dovrebbe innanzitutto saper interpretare le nuove tendenze, riconoscere le idee innovative e avere il coraggio di premiare autori emergenti. I’m not there di Todd Haynes e La grain e le mulet di Abdellatif Kechiche in questo senso avrebbero meritato più di un “modesto” (come l’ha definito, con un pizzizo di arroganza, lo stesso regista francese) premio speciale della giuria. Il primo è sorprendente nella sua capacità di evocare, in un intreccio emozionante di storie e personaggi diversi, lo spirito, l’anima, l’idea del mito Bob Dylan. Probabilmente l’unico modo per riuscire a raccontare senza retorica e senza banalità un artista che da sempre sfugge ad ogni classificazione e semplificazione. Film geniale, anticonformista, da guardare senza aspettarsi di capirne davvero qualcosa di più sul menestrello americano. Meritata la Coppa Volpi per Cate Blanchett che forse interpreta il personaggio più fedele all’originale.

La grain et le mulet ci restituisce invece, con impressionante realismo, il mondo delle comunità nordafricane francesi. Un film che parte da piccole cose, da piccoli gesti e situazioni della vita quotidiana per poi assumere un respiro molto più ampio. Convivenza, integrazione, lavoro, speranze, amori, sensualità, rapporti sociali e persino la morte, tutto gira intorno a un cous cous, a una tavola imbandita. Kechiche mette in mostra una straordinaria capacità nel dirigere i suoi attori, riuscendo a gestire relazioni spaziali, fluidità di dialoghi e di azioni tra più di dieci personaggi contemporaneamente nella stessa scena (tra cui la bravissima esordiente Hafsia Herzi, premio Mastroianni).

Se Kechiche ci porta a tavola con i suoi personaggi, Nikita Mikhalkov in 12, ci coinvolge nella decisione sulla colpevolezza di un giovane ceceno, accusato di aver ucciso il patrigno, un ufficiale russo. I dodici (da cui il titolo) giurati chiamati ad emettere il verdetto si raccontano uno a uno in una sorta di terapia di gruppo, convincendosi di non poter esprimere un giudizio troppo superficiale. Quello che esce dalle loro parole è uno spaccato della Russia di Putin, un paese diviso e lacerato da conflitti interni, ma che ha soprattutto un estremo bisogno di riflettere sul significato della democrazia. Un film talmente riuscito, per quanto ispirato a La parola ai giurati di Lumet di cinquant’anni prima, da convincere i veri giurati di Venezia a istituire un premio speciale per non lasciare a mani vuote il maestro russo.

Un altro film che avrebbe meritato maggior considerazione è The Darjeeling Limited di Wes Anderson, vittima del preconcetto secondo cui una commedia non può vincere un festival di prestigio. Il regista americano ha ormai definitivamente creato un nuovo personalissimo genere cinematografico, che va oltre il grottesco, miscelando la comicità al dramma in modo geniale e sorprendente, riuscendo sempre a far riflettere sorridendo. Quest’ultimo film racconta il viaggio in India di tre fratelli alla ricerca della madre, ma presto si trasforma in un percorso interiore alla scoperta di se stessi, una volta liberati dall’opprimente figura paterna. Un film divertente, intelligente in cui nulla è mai fine a se stesso, neanche le scene più demenziali; tre attori eccellenti e una scenografia da Oscar.

Ma il grande sconfitto di questa edizione della mostra è senz’altro Paul Haggis con il suo In The Valley of Elah, uno dei film più belli finora girati sulla guerra in Iraq. Il film si concentra non direttamente sul conflitto ma sui suoi tragici effetti, capaci di mettere in crisi anche le ferme convinzioni patriottiche e conservatrici di un padre, che non riesce più a riconoscere il proprio figlio reduce dall’Iraq e misteriosamente assassinato. Haggis emoziona con una sceneggiatura forte ma mai sopra le righe, esaltata da una regia che riesce a completare i significati del “non detto” (come la grande forza visiva e simbolica dell’immagine finale: la bandiera USA rovesciata). Ne esce un America lacerata e in drammatica fase di autodistruzione, un paese più che mai bisognoso di aiuto. Purtroppo il film non ha ricevuto neanche un premio, e quella Coppa Volpi a Brad Pitt, invece che all’intenso Tommy Lee Jones, grida vendetta.

Un ancor più feroce e diretto atto d’accusa contro le guerre americane viene da Redacted di Brian De Palma, leone d’argento per la miglior regia. Il film racconta un brutale episodio realmente accaduto, lo stupro di gruppo e il successivo massacro di una ragazza irachena e della sua famiglia da parte di alcuni soldati americani. E’ il modo in cui viene proposto che risulta innovativo ed efficace: De Palma racconta tutta la storia attraverso gli occhi di uno dei soldati, che riprende con la sua handycam tutto ciò che succede, e inserisce tra una ripresa e l’altra filmati tratti da blog e portali internet. Una sorta di finto documentario per dimostrare come la vera informazione non passi mai attraverso i canali tradizionali come la stampa e la tv.

In concorso inoltre sono state apprezzate altre belle pellicole, come It’s A Free World, di Ken Loach (Osella d’oro per la miglior sceneggiatura), Help me Eros, di Lee Kang Sheng e Nightwatching di Peter Greenaway. Tutti film di qualità, interessanti e diversissimi tra loro, che insieme agli altri hanno reso ricco, variegato e affascinante questo festival numero sessantaquattro.

Purtroppo nella classifica dei migliori film non compaiono, ancora una volta, titoli italiani. Le tre pellicole in concorso non hanno proprio convinto per diversi motivi. Nessuna qualità agli eroi di Franchi vuole trattare in modo troppo astratto, concettuale e filosofico il drammatico rapporto conflittuale tra padre e figlio; l’effetto purtroppo è quello di una bolla di sapone che si gonfia troppo per poi scoppiare senza lasciare traccia di sé.
Il dolce e l’amaro di Porporati e L’ora di punta di Marra sono due buone fiction, nulla di più: storie banali e prevedibili, personaggi stereotipati e regia piatta. Fuori concorso invece sono arrivate alcune splendide sorprese come il brillante Non pensarci, di Gianni Zanasi, con un Valerio Mastandrea impareggiabile, e Le ragioni del’aragosta, di Sabina Guzzanti, oltre a La ragazza del lago di Molaioli e Valzer di Maira. Insomma nessuna crisi del nostro cinema, piuttosto una selezione disastrosa dei film in concorso.
Il bilancio dunque di questa edizione della mostra di Venezia è senz’altro positivo e Muller si conferma un direttore capace e competente, in grado di coniugare l’aspetto autoriale e la tradizioni cinematografiche di tutto il mondo (grandi maestri e film di qualità da ogni continente) con quello commerciale e spettacolare (molti film e grandi star da Hollywood).
Una boccata d’ossigeno dunque per il Festival più antico del mondo, che tuttavia fino alla costruzione del nuovo Palazzo del cinema, prevista per il 2011 (ma da veneziano permettetemi di dubitarne…), dovrà prolungare la sua agonia e continuare a lottare per la sopravvivenza.