New York. Una giornata nella vita di un uomo. Un americano tranquillo, faccia da bravo ragazzo, un cane raccolto morente al guinzaglio. Una bellissima ragazza portoricana che l’ama, amici ricchi e dubbiosamente moralisti per una festa d’addio. Monty Brogan è un elegante spacciatore che ha finito la sua scalata sociale. Incastrato da una soffiata alla polizia, sta per diventare un comune delinquente condannato all’inferno. La giungla della prigione lo attende. Niente più bei vestiti, non più amici, nessuna protezione, un mondo che crolla. Lui vaga ventiquattro ore nella sua città, come una resa dei conti. Incontra i suoi sensi di colpa, i giudizi della gente, un party in discoteca lugubremente organizzato per lui, con donne mezze nude e ninfette provocanti. Poi, lo scoppio autodistruttivo e disperato della violenza. Le strade sporche dell’America, le croci e le bandiere, i deserti e i negozi, il traffico e il silenzio. Infine, l’attesa della venticinquesima ora, quella della scelta definitiva, una possibile redenzione che non sconta la colpa e forse non arriverà mai. La vita in un sogno retorico di fuga e famiglia nell’Ovest, il desiderio di poter ricominciare tutto da capo, lontano, tra figli e nipoti verso una serena vecchiaia. Un’ora che per Monty, come per l’America, sembra destinata a non esserci più, se non in un’irrealistica idea del proprio futuro.
La 25a ora è un film intimamente dilaniato tra i poli del bene e del male. Claustrofobico nel suo andamento a clessidra del tempo che passa, via via restringendo la residua libertà di Monty (la stessa unità aristotelica usata per Fa’ la cosa giusta). Spike Lee costruisce un malinconico e potente film dostoevskiano, sulla responsabilità e la caduta individuale come riflesso d’un tormentoso malessere collettivo. Un abbandono luttuoso alla non redimibilità dell’esistenza, che conosce senza rimedio il delitto e il castigo nelle sue zone d’ombra. Monty rivela il male, radicale, in una condivisione che è disincanto fatale del mondo. Tragedia che aleggia nella perdita delle banali certezze quotidiane. Un congedo incombente che ha il sapore funesto dell’ineluttabile. La capacità tutta dostoevskiana di dare espressione ai grandi conflitti dello spirito e della storia, incarnandoli in figure implosive come Monty Brogan.
Se il bene e il male sono in rapporto alla libertà, che viene prima e li pone, Monty si trova tragicamente di fronte alla possibilità del nulla. Da lui identificato con la prigione, il luogo dove la vita viene annichilita, pervertita, trasformata in anticamera dell’inferno. Lo spacciatore dalla faccia pulita, che semina morte, si trova improvvisamente di fronte alla scelta che aspetta ciascun uomo. Prendere posizione come se da lui dipendesse non solo il proprio destino, ma qualcosa che insieme lo riguarda e lo trascende: dare ancora valore alla vita, in un alternato crescendo di male fatto e male patito, angoscia e grazia, rovina e redenzione. Un’esperienza collettiva che porta in primo piano lo sfondo in cui è ambientata la vicenda. Una sorta di grottesca parodia del destino manifesto americano, del suo diritto, costituzionale, alla felicità.
La 25a ora non è semplicemente un film girato a New York, ma un film su New York. Una città inesorabilmente traumatizzata dall’attentato dell’11 settembre 2001. Sfregiata, nella sua luce livida, come l’anima del protagonista nello sguardo del suo tardivo rimorso. Monty si aggira nel pallore grigio cemento delle mattine newyorkesi e le sue notti elettricamente bluastre. Sprofonda angosciosamente in una città con al centro l’immagine orribilmente vuota di Ground Zero. Una voragine che proietta fasci di luce invece di due grattacieli. La faccia di Bin Laden wanted sulle porte degli uffici, i volti dei vigili del fuoco morti l’11 settembre alle pareti dei pub. Il marcio dolente d’una metropoli dove trionfa il melting pot che ti spreme e sorride, massacra e arricchisce. Un rabbioso atto d’odio e amore che Spike Lee fa esplodere in un monologo rap del protagonista davanti allo specchio, bestemmiando contro se stesso, Bush e tutte le comunità etniche in una guerra di visi e colori.
La 25a ora è tratto dall’omonimo romanzo di David Benioff (sceneggiato dallo stesso scrittore, con la complicità del regista). Un libro pubblicato nel 2000, ma adattato al nuovo cupo spirito che aleggia avvertibile sull’anima di New York. L’uso dello spazio, fisico e psichico, nel film, è generalmente teso a evocare una sensazione di vuoto, di una città funereamente orbata. Tanto che La 25a ora non è stata solo la prima pellicola a mostrare la voragine lasciata dalle Torri, ma anche la prima ricognizione sui danni provocati nella psiche newyorkese dal drammatico abbattimento di uno dei suoi simboli. Un senso irreparabile di perdita e mancanza di direzione, lo stesso sofferto dai personaggi.
L’omofobia delle figure maschili all’interno del film smaschera crudamente insicurezze. L’omosessualità è sottilmente presentata come un’insinuante metafora della brutalizzazione subita da una città e tutta una nazione. Ed è ancora una volta Monty 1 a personificare questo trauma in ogni cosa che riguarderà l’immagine della sua vita in galera. Una stretta, quest’ansia da castrazione, che pervade il protagonista della 25a ora come tutto il tessuto inconscio della messa in scena di New York. ''Una città ferita per cui provo compassione, ma che ha anche delle responsabilità'' (Spike Lee) 2, esattamente come Monty Brogan.
Per Lee, come per Scorsese o Ferrara, New York non è semplicemente un set, ma una forza generativa, un’avvolgente presenza, un’ossessione. Il cimitero che chiude Gangs of New York, mentre la città si erge orgogliosa e monumentale sullo sfondo, ha finito col riprendersi il suo spazio. Ground Zero contagia mortuario il suo nulla impastato d’odio. New York sembra un’immensa tomba, del sogno americano, di tutta un’arrogante cultura occidentale, dello stesso Monty Brogan.
In quella che è la sua seconda incursione al di fuori dell’universo nero, dopo SOS Summer of Sam (anch’esso ambientato in un passaggio traumatico per la città di New York), Spike Lee ritrova la sua vena migliore. Girando magnificamente un film duro, inesorabile e amaro, tagliente nella sua moralità, con struggenti scene d’amore nella forma di speranza. La 25a ora è quel raro cinema che riesce a tradurre in arte, e sensazioni viscerali, un momento storico. Il sinistro avvio, quell’11 settembre, di un nuovo millennio.







NOTE

1.Edward Norton è perfettamente ambiguo nella sua interpretazione, confermandosi, dopo American History X e Fight Club, la giovane personificazione delle più vive inquietudini della società americana.

2. Cit. in Chiara Barbo, Fai la cosa giusta, in “VivilCinema”, marzo/aprile 2003, p. 8.