Fingo per un istante di essere un critico di professione, e sulla scia dei pionieristici critici del cinema degli albori, voglio mettermi alla prova con un commento a caldo di una prima ed unica visione.
I supporti moderni, DVD o VHS che siano, facilitano il lavoro analitico, ma condizionano spesso l’obbiettività del giudizio.
L’opinione basata sulla prima impressione, seppur a volte forviante (non tutte le pellicole si svelano con un’unica visione) è sicuramente più vicina alla voce del pubblico, e quindi più sincera e disinteressata.
Il film che ha riscattato il mio altrimenti noioso sabato sera è Munich di Steven Spielberg.
Il soggetto si sviluppa a partire dai tragici eventi delle Olimpiadi di Monaco del 1972. La sconvolgente esecuzione della compagine sportiva di Israele ad opera del gruppo terroristico palestinese Settembre Nero, perpetuata durante la manifestazione sportiva che più di tutte incarna gli ideali di fratellanza e pace secondo la dottrina del Barone De Coubertin. Posto questo tragico evento come preambolo, Spielberg descrive le vicissitudini di cinque sicari del MOSSAD scelti dallo stato di Israele per punire gli undici esecutori della strage, una complessa operazione di intrighi internazionali ancora oggi non riconosciuta ufficialmente dallo stato ebraico, ma ampiamente testimoniata da alcuni carnefici reo-confessi.
Il pur delicato soggetto è affrontato da Spielber con sapiente distacco documentaristico. Gran parte delle sequenze iniziali sono descritte attraverso i telegiornali dell’epoca, e l’uso insistito di inquadrature caotiche è finalizzato all’emulazione del realismo di un servizio giornalistico. Il montaggio serratissimo di tutto l’episodio iniziale enfatizza una tensione costante che sarà la cifra stilistica di tutto il film.
Stupefacente la simulazione di un vero e proprio film anni 70, non solo per la cura dei dettagli interni come gli abiti dei protagonisti e le caratteristiche delle numerose location europee, ma anche per il colore della pellicola, sbiadito ad arte per simulare un filmato d’epoca.
E’ ammirabile l’obbiettività, il distacco con cui l’ebreo Spielberg descrive un’operazione scomoda per Israele, vendetta di un atto barbaro che mano a mano si trasforma nell’analogo contro altare. Questi spaesati sicari, superati gli impacci dei primi omicidi, diventano degli automi, macchine di morte che rispondono ad un istinto primordiale, un impulso di cui non possono più fare a meno. Il loro leader Avner (il bravissimo Eric Bana) è un neo padre di famiglia, costretto a vivere da anonimo e spietato vagabondo per assicurare alla moglie un futuro agiato.
L’abilità del grande regista americano sta proprio in questa pericolosa ma riuscitissima mescolanza di ingredienti: un’analisi distaccata e obbiettiva degli eventi senza parzialità, censure e luoghi comuni di sorta, legata ad una graduale drammatizzazione degli eventi espressa attraverso l’emotività del protagonista.
Sia le scene riguardanti l’attentato di Settembre Nero che quelle incentrate sul gruppo del MOSSAD, sottolineano il terrore e l’imbranataggine di queste pedine sacrificabili. Non hanno la baldanza dei sicari mafiosi che tanti gangster movie ci hanno proposto, sono persone comuni spesso del tutto impreparate a questo mestiere, la cui unica spinta motrice è un inesauribile fanatismo.
Il dramma di queste operazioni non è solo la loro brutalità intrinseca, ma la loro assoluta inutilità, escludendo naturalmente lo sfogo vendicativo. Il protagonista inizia a rendersene conto quando scopre che tra gli undici bersagli vi sono uomini che si sono macchiati crimini diversi dall’attentato di Monaco; lui ed il suo gruppo sono pilotati e manovrati con l’inganno. Capisce anche che per quanti bersagli possano sopprimere, verranno sempre rimpiazzati da uomini ancora più spietati dei precedenti; che questa spirale di odio genera altre reazioni terroristiche; che loro stessi sono a loro volta nel mirino.
Il culmine di questo film intensissimo è un incontro casuale, una forzata convivenza dai risvolti ironici tra i cinque israeliani con estremisti della fazione opposta in une edificio diroccato di Atene. Celando la loro nazionalità e gli intenti per cui si trovano nella capitale ellenica, vengono a contatto diretto con il nemico e i due rispettivi leader si confrontano nella scena madre di tutto il lungometraggio.
Il dialogo è intenso ai limiti della colluttazione, il protagonista rischia di tradirsi, ma lo scontro è esclusivamente dialettico. Avner ha una rivelazione: si trova davanti al suo doppio. Un uomo livido dalla rabbia, colmo di odio, pronto a morire per il suo ideale e per assicurare un degno futuro ai suoi figli, e ai figli dei suoi figli.
Capisce di trovarsi di fronte a sé stesso, e coloro che finora ha ucciso non sono poi tanto peggio o tanto meglio di lui.
Quando nel corso dell’operazione che dovrà portare a termine il suo cammino sarà ostacolato da questa stessa persona, egli si troverà davanti al paradosso. Esiteranno tutti e due, ma solo per un istante. Avner spara per primo e sopravvive, ma non la sua anima. Da quel momento non sarà più lo stesso.
E’ incredibile l’abilità di Steven Spielberg nel realizzare opere così diverse tra loro come quelle che caratterizzano la sua vasta filmografia. A stento riesco a credere che il regista che l’estate scorsa imperversava nei cinema con il remake de La guerra Dei Mondi (film nel suo genere impeccabile) oggi ci stupisca con un film così diverso. Già in passato aveva dimostrato di saper passare dal film d’autore, al fantascientifico fino all’adventure movie, senza battere ciglio. Ma ancora oggi rimango sbalordito di fronte al suo stile cangiante e camaleontico, attendendo l’ultima sequenza di ogni suo film per leggere la scritta “Dircted by Steven Spielberg”, per avere conferma di non essere entrato nella sala sbagliata…
Altri punti di forza di questo splendido Munich sono: l’interpretazione maiuscola di Geoffrey Rush; le musiche di John Williams, non tanto per la loro fattura (sempre eccelsa) quanto per la loro “discrezione”, se non addirittura “assenza” nella maggior parte del girato. Scelta azzeccata per l’accentuazione del realismo e coerente con lo stile asciutto e distaccato di tutta la pellicola.
Spicca sui titoli di coda uno dei pochi temi musicali prevalenti, un ostinato dissonante e ipnotico, degna descrizione dello sconvolgimento del bravissimo Eric Bana.

Da vedere e da promuovere…