Per provare a spiegare e a definire i tratti salienti della comicità ebraica non si può trascendere da quella che è una delle determinanti che più caratterizzano la storia del popolo ebraico: la diaspora. La religione ebraica è una delle più antiche del mondo e fin dai tempi di Babilonia il popolo ebraico è stato costretto a vagare alla ricerca di una terra promessa dal messia del cui arrivo è tuttora in attesa. Gli ebrei sono da sempre, quindi, costretti ad integrarsi con altre culture, a venire a contatto con diverse etnie e religioni. E’ per questo motivo, per la sua stessa natura, così intrinsecamente piena di “contaminazioni” culturali che è estremamente difficile distinguere l’appartenenza di elementi dell’una o dell’altra tradizione. All’inizio del 1900, l’America si proponeva come la terra che apriva le porte a tutti, che accoglieva chiunque, così, migliaia di persone provenienti dai più disparati luoghi si riversavano dopo lunghi viaggi in nave ad Ellis Island. Tra questi molti erano Italiani, molti Irlandesi e molti erano Ebrei. Una delle motivazioni per cui molti Ebrei entrarono ben presto nello show business dello spettacolo americano sta forse nel fatto che nel ghetto di New York l’industria dell’intrattenimento era l’unica possibilità di lavorare per tutte quelle minoranze che non avevano grosse somme di denaro da investire.
«Il teatro americano alla fine dell’800 si articolava in drammi popolari (spesso a tema nazionale) e in operette sentimentali di derivazione europea. La produzione comica si affidava spesso al contrasto fra Est e Ovest, secondo una tradizione che la letteratura narrativa conosceva almeno dai tempi di Washington Irving. C’era naturalmente anche un teatro di intrattenimento musicale, qualcosa di simile al Music Hall di britannica memoria, ma nella seconda metà del secolo giunse a maturazione anche il germe che sarebbe poi esploso nella vera e propria commedia musicale sin dall’inizio del ‘900, e l’influenza della scena inglese si affievolì vieppiù con ''lo sviluppo di una coscienza culturale americana e più in generale una maturità nazionale²»1


E’ questo il contesto in cui la componente ebraica s’inserì, non si parla di una svolta epocale ma di una presenza costante che poco a poco si fece sempre più presente e sempre più riconoscibile. Lo stile ebraico non soppianta quello originale, ma lo arricchisce di sfumature e tendenze che affondano le proprie radici nella millenaria tradizione ebraica. E’ un processo senz’altro lungo e graduale che ha potuto avere luogo solo grazie, da un lato, alla necessità delle minoranze ebraiche di integrarsi in un contesto a loro estraneo ma dove ormai vivevano e, dall’altro, alla forte e tenace spinta a conservare le proprie radici e le proprie tradizioni. Integrarsi per sopravvivere, rinnovarsi per poter mantenere le proprie radici. Ma qual è l’apporto ebraico nella cultura Americana? Secondo Bermant «L’agilità dell’ebreo fu limitata al pensiero»2 ovvero esso affida il suo operato non all’azione ma al pensiero.
Da agilità mentale ad agilità verbale il passo è breve ed è questa dialettica, basata su giochi di parole e controsensi ad inserirsi nella già collaudata tradizione verbale americana. Secondo Carlo Izzo3 il discorso americano si sviluppa attorno all’overstatement, ovvero sull’esagerazione e sull’ingigantimento di situazioni. Il linguaggio ebraico non ingrandisce i contenuti ma li stravolge secondo la logica dell’assurdo. Lo stravolgimento della realtà oltre che uno strumento comico, rappresenta anche un atto di rottura ai danni dell’ordine che governa la società e del sistema che non ha però luogo sulla base di contenuti rivoluzionari o politici, ma sul semplice capovolgimento degli elementi del reale4.

Tuttavia le componenti ebraiche nel cinema americano non si limitano solo all’apporto verbale, bensì anche ad una forte caratterizzazione visiva, fondata sulla tradizione del travestimento, della maschera e sull’enfatizzazione di tratti somatici. Guido Fink parla di «una vocazione ebraica alla rappresentazione visiva [...] di una dissimulazione continua, di una nevrotica assunzione di maschere come strumento di difesa»5.
Questi elementi trovano con il cinema una particolare contiguità in quanto la cinepresa rispetto al teatro esalta le peculiarità fisiche dell’attore, che se alterate disgregano la persona accentuandone la valenza di maschera. Si può affermare, quindi che i tratti caratterizzanti degli attori comici nel passaggio da teatro a cinema vengono enfatizzati connotandosi in una visione ideale.
«La comicità ebraica americana, e si nutre, tra l’altro, anche di componenti fisico-visive che il privilegio dato al sonoro rende tutt’altro che marginali. La maschera di Groucho, per esempio, con quei baffi non finti, ma palesemente dipinti e quindi ancora più platealmente falsi (una parodia della parodia dei make-up comico), si accompagna a una camminata a grandi falcate e ginocchia piegate, che rende perfettamente l’invadenza fluida del personaggio»6


L’adozione di maschere, il travestimento, la modificazione della propria immagine, l’assunzione di atteggiamenti estranei alla cultura ebraica ma propri delle civiltà con cui essa si è trovata a contatto, comporta la relegazione della propria coscienza ed una perdita graduale della propria identità. Si manifesta quindi la presenza di un doppio, su cui si può ironizzare come se si trattasse di un'altra persona. Lo sdoppiamento assume diverse forme nella comicità ebraica, da un lato diviene nevrosi, come in Woody Allen ad esempio, dall’altro si disgrega in una commistione di patetismo e umorismo.

«Dunque, a un livello immediato il comico ebraico tende a imitare l’altro (e sempre con risultati disastrosi), a un livello per così dire psicologico l’imitazione fallita è in realtà l’arma di difesa della propria identità, e a un livello critico essa si propone come messa a nudo dei valori convenzionali (quando non di istituzioni, credenze, regole sociali ecc.)» 7


Vogliamo vivere! (To be or not to be, Usa 1942), di Ernst Lubitch.

Regia: Ernst Lubitsch; soggetto: Melchior Lengyel, Ernst Lubitsch; sceneggiatura: Edwin Justus Mayer; fotografia: Rudolph Maté; scenografia: Julia Heron, Vincent Korda; costumi: Irene; montaggio: Dorothy Spencer; musiche: Werner Richard Heymann (e temi di F.Chopin); effetti speciali: Lawrence W. Butler; interpreti: Carole Lombard (Maria Tura), Jack Benny (Josef Tura), Robert Stack (ten. Stanislas Sobinski), Felix Bressart (Greenberg), Lionel Atwill (Ravitch), Stanley Ridges (prof. Siletsky), Sig Ruman (col. Erhard), Tom Dugan (Bronski-Hitler), Charles Halton (Dobosh), George Lynn (un attore), Henry Victor (Schultz), Maude Eburne (Anna); produttore: Romaine Film Corporation, United Artists; origine: USA 1942; durata: 99´.

In Vogliamo vivere!, titolo che tradisce la natura farsesca del film, una compagnia teatrale di Varsavia viene smantellata dall’occupazione tedesca, finché viene coinvolta in una congiura antinazista in cui ogni attore avrà modo di dimostrare le proprie capacità di interpretazione scenica. Il travestimento teatrale e le barbe finte diverranno poco a poco l’arma per contrastare le pistole, i fucili e la violenza. Ma la linea di confine fra realtà e finzione scenica diviene, nel film di Lubitsch, col procedere della narrazione, sempre più labile. Uno degli attori della compagnia, a cui era stata censurata una commedia sulla Gestapo, commenta vedendo marciare le truppe tedesche «…e nessuna censura li ferma», ma anche altre frasi sottolineano il rapporto tra finzione teatrale e realtà «così non ci preoccuperemo più per la commedia sulla gestapo…ora la commedia l’hanno incominciata i nazisti, ma atroce!», e ancora «Il sipario è calato sul dramma polacco» inoltre i proclama tedeschi che annunciano l’occupazione di Varsavia si fanno progressivamente più grandi come quelli che, prima dell’occupazione, avvisavano il pubblico della messa in scena di uno spettacolo teatrale. In Vogliamo vivere! La finzione esce dal palcoscenico usuale per svilupparsi nelle strade, come nella prima scena in cui un finto Hitler si aggira per Varsavia, nel comando della Gestapo, o in un finto comando della Gestapo, allestito nei corridoi del teatro che portano ai palchi, in uno spazio, cioè non destinato alla tradizionale messa in scena (alle spalle del pubblico teatrale) ma che diviene un punto di contatto tra il mondo reale e quello della rappresentazione. Vogliamo vivere! vuole essere un inno alla supremazia della finzione scenica sulla realtà violenta e dura, ed è proprio tale supremazia a rendere questo film una squisita commedia dai toni comici che trasfigura totalmente gli eventi storici. In questa compenetrazione tra realtà e rappresentazione il vantaggio che hanno i commedianti è proprio quello della coscienza della finzione e la complicità con lo spettatore ai danni di un’altra tipologia di spettatore allo scuro di questo gioco.
«È il principio dei ''terzo incluso'' [...]lo spettatore che va a teatro non scambia per realtà l´azione dei comici, come potrebbe fare un Don Chisciotte o la tradizionale figura dei villano a teatro, ma sa che li qualcun altro potrebbe cadere, nella trappola: di qui la sua complicità con i gli attori nell´ingannare questo altro, che parrebbe essere anche una sua parte infantile, un suo ''doppio'' superato e rimosso.» 8


Lubitch, nella sua produzione, dimostra un’attenzione anticipatrice per il pubblico, per cui esso non rappresenta più un valore aggiunto ma è parte del film stesso e il regista vi costruisce la scena attorno. Le ellissi e le contrazioni spazio – temporali divengono momenti narrativi in cui è lo spettatore a portare avanti la narrazione con la propria risata. Lubitch utilizza l’ellissi come un procedimento di scambio con lo spettatore, in un sistema in cui ogni meccanismo è in funzione dell’altro.

A questo proposito la ripetizione di battute, di situazioni e di gag all’interno di uno stesso film, risulta particolarmente efficace perché si tratta di costrutti narrativi che lo spettatore conosce e a cui è preparato; in questo senso si può dire che Lubitch dapprima crea per il pubblico un’aspettativa che poi asseconda e soddisfa, magari in maniera leggermente variata. In questo ribaltamento i tedeschi emergono come i cattivi attori che «trattano la Polonia più o meno come Josef Tura tratta Shakespeare». Questa battuta in particolare, ritenuta eccessiva e troppo irriverente vista la tragedia che in quegli anni si stava consumando in Europa, provocò numerose polemiche, tanto che venne chiesto al regista di tagliarla, tuttavia Lubitsch non cedette:
«Riconosco – scrisse – di non aver fatto ricorso ai metodi che film, romanzi e tragedie utilizzano per dipingere il terrore nazista. Non ho fatto vedere camere di tortura, flagellazioni, nazisti sovraeccitati con la frusta. I miei nazisti sono diversi, hanno passato questo stadio. Le sevizie e le torture sono diventate la loro routine quotidiana [...]il mio film è una satira su due categorie ben precise, gli attori e i nazisti, non i polacchi e la Polonia»9

Lubitsch ribalta la realtà in un gioco che va a discapito dei nazisti allo scuro del meccanismo della finzione.
I commedianti si travestono di volta in volta da soldati tedeschi, da generali, da spie e persino da Fürer, disorientando i veri tedeschi e creando ai loro occhi una realtà del tutto simile alla loro anche se più confusionaria. Si tratta di indossare delle maschere di dissimulare la propria essenza camuffandosi da altro per assecondare il prossimo. Tuttavia anche questo film è intriso di quell’autoironia ebraica e del saper ridere di se stessi, la recita teatrale del «grande,. Grande attore polacco Josef Tura» viene continuamente interrotta sul famoso monologo di Amleto dall’ammiratore della moglie che si alza per andarla a trovare.
«L'emozione nasce dal fatto che tutte le vere vittime (e non un attore) stanno gridando in faccia al vero Hitler (e non a Bronski) parole che una volta tanto non fanno più parte dello Shakesperare ''mortale'', sì di uno Shakespeare riletto nel modo più vero»10

Nel film di Lubitsch si intenta un camuffamento dell’identità ebraica che diviene totale; non viene mai nominata infatti la parola “ebreo”, perfino quando uno degli attori della compagnia interpreta il monologo di Shylock tratto da Il mercante di Venezia di Shakespeare, la parola viene sostituita con una più neutrale prima persona. Infine in Vogliamo vivere! il mezzo di trasporto designato alla salvezza è l’aereo, non solo quello che all’inizio della storia porterà il giovane aviere a Varsavia e che darà inizio alla farsa ma anche quello che alla fine del film i commedianti utilizzeranno per arrivare in Inghilterra, che in diversi film di Lubitch si pone come zona franca tra lo shtetl e l’America11.


Jakob il bugiardo (Jakob the liar, Usa 1999), di Peter Kossovitz.

Regia: Peter Kassovitz; soggetto: Tratto dal romanzo omonimo di Jurek Becker; sceneggiatura: Didier Decoin, Peter Kassovitz; fotografia: Elemer Ragalyi; scenografia: Luciana Arrighi; costumi: Wieslawa Starska; montaggio: Claire Simpson; musiche: Ed Shearmur; effetti speciali: Miroslaw Bartosik, Ferenc Ormos; interpreti: Robin Williams (Jakob Heim), Hannah Taylor Gordon (Lina Kronstein), Eva Igo (madre di Lina), Istvan Balint (padre di Lina), Justus Von Dohnanyi (Preuss), Bob Balaban (Kowalsky), Alan Arkin (Max Frankfurter), Michael Jeter (Avron), Mathieu Kassovitz (Herschel), Armin Mueller-Stahl (Prof. Kirkscham), Liev Schreiber (Mischa), Nina Siemaszko (Rosa Frankfurter); Produttore: Marsha Garces, Steven Haft per la Blue Wolf Production/Kasso Inc. Production; origine: Usa 1999; durata: 114’.


Jakob è un venditore di frittelle che vive nel ghetto di Lotz e che, convocato al comando nazista ascolta per pochi minuti un programma radio che annuncia l’imminente arrivo delle armate russe nella città, dopo questo evento inizieranno una serie di fraintendimenti che porteranno gli altri Ebrei rinchiusi del ghetto a pensare che Jakob abbia veramente una radio, infrazione alle regole punita con la morte, da cui ascolti quotidianamente i notiziari. Dal principio egli cerca di spiegare il fraintendimento ai suoi compagni, ma poi, accorgendosi del rinnovato rispetto di cui gode fra gli amici e della speranza che infonde loro, inizia ad inventare fantasiosi notiziari in cui i russi riconquistano i territori occupati e la liberazione è così vicina. L’illusione di una via di scampo genera nei compagni di Jakob una rinnovata gioia di vivere che spinge Jakob a perseverare nel suo ruolo. Non solo, alcuni prigionieri lo credono persino un profeta, poiché come Isaia ha sentito la voce di Dio come Jakob ha sentito la voce della radio
Jakob, dunque si adatta, suo malgrado, ad una duplice maschera di eroe, che gli viene affibbiata dai compagni, e di sovversivo, secondo i nazisti. Se nel suo svolgimento questo film alterna fulminanti battute yddish e fraintendimenti, raggiunge il suo apice di drammaticità sul finale, in cui a Jakob sul patibolo, dopo essere stato torturato e malmenato viene intimato di confessare a tutti che la radio non è mai esistita.

«E quando le maschere cadono, o non c’è tempo di infilarsele? In questi casi, l’immagine – meglio: lo sguardo altrui – ci sorprende nella nostra nudità, del nostro essere o sembrare una replica dell’immagine non guardabile del Padre; e la relazione può essere traumatica» 12.

E’ questo quindi il momento più tragico, quando la maschera cade e sotto percepiamo l’esistenza di un uomo. La tragicità sta nella delusione delle aspettative, nel rendersi conto che quello che abbiamo visto era finzione e che la realtà è tutt’altra; i compagni di Jakob lo vedono, fino a quel momento, come un eroe che contravviene alle regole imposte dai nazisti, che sfonda quel muro di silenzi e fornisce loro notizie sulla guerra.

Allo stesso modo i nazisti lo vedono come un nemico che cerca di ingannarli e osa opporsi al loro dominio. Quando Jakob confessa ai tedeschi di non avere la radio, egli si rivela ai tedeschi per quello che è e davanti al nemico getta la maschera, ma quando gli viene chiesto di confessarsi davanti ai suoi compagni egli non lo fa. Jakob va sul patibolo con la sua maschera e con essa morirà, tenendo fede alle aspettative dei suoi compagni e continuando a beffarsi dei tedeschi. Dopo la sua morte il ghetto viene sgombrato ma il treno che dovrebbe portare i prigionieri ai campi di sterminio viene bloccato dall’armata Russa che, come il protagonista in un suo delirio favolistico aveva preannunciato, si presenta ai prigionieri con un’orchestra. Per questo film Kassovitz, ebreo ungherese sopravvissuto alle persecuzioni antisemita della seconda guerra mondiale grazie ad una famiglia cattolica che lo nascose13, sceglie una verosimiglianza storica e compie una descrizione realistica delle condizioni degli ebrei nel ghetto, per tutta la pellicola traspare la drammaticità del contesto che non viene mai messa in ombra. «Solo perché c’è una guerra non vuol dire che non si possa scherzare» acquistano così particolare rilievo gli spunti umoristici, i dialoghi fra Jakob e i compagni, i frequenti monologhi fra il protagonista e l’Eterno «Signore, lo so che noi siamo il popolo eletto, ma avrei preferito che tu avessi eletto qualcun altro» e la vera e propria recita a più voci che Jakob mette in scena dietro ad un paravento per la bambina che egli custodisce, anch’ella smaniosa di ascoltare la radio.
Jakob non si traveste fisicamente, ma inventa una finzione che è solo verbale e che trae fondamento dal bisogno di eludere la realtà e di crearne una nuova e più positiva in cui trovare un ruolo più accettabile.


Un treno per vivere (Train de vie, Francia – Romania 1998), di Radu Mihaileanu.

Regia: Radu Mihaileanu; soggetto: Radu Mihaileanu; sceneggiatura: Elodie Van Beuren; fotografia: Yorgos Arvanitis, Laurent Dailland; scenografia: Cristi Niculescu; Costumi: Viorica Petrovici; montaggio: Monique Rysselink; musiche: Goran Bregovic; interpreti: Lionel Abelanski (Schlomo), Rufus (Mordecai), Clément Harari (il rabbino), Michel Muller (Yossi),Bruno Abraham-Kremer (Yankele), Agathe de la Fontaine (Esther), Johan Leysen (Schmecht), Marie-José Nat (Sura); produttore: Frédérique Dumas, Marc Baschet, Cédomir Kolar, Ludi Boeken, Eric Dussart; origine: Romania-Francia 1998; durata: 101'


L’intento che Radu Mihaileanu si propone con Train de vie è quello di «far ridere parlando della più terribile tragedia del secolo e tentare di dare un seguito alla grande scuola dell’umorismo yddish. » 14ma anche «rievocare la civiltà yddish degli shtetl che è praticamente stata spazzata via dall’olocausto […], e fare un omaggio a mio padre raccontare – sia pure in modo indiretto – la sua storia».15
Non è certo facile fare un film umoristico sull’olocausto, sia per il doveroso rispetto che si nutre per i reduci, alcuni dei quali ancora in vita, sia per le migliaia di vite cancellate, ma anche per il dolore dei parenti e il senso di colpa di chi, direttamente, indirettamente o ereditariamente16sono coinvolti.
Per raccontare questa storia il regista inizia nel più classico dei modi, cioè con un C’era una volta…, come in una fiaba per bambini. Non solo, ma sarà proprio un personaggio bambinesco a narrarla, uno shlemiel, il matto del villaggio. Lo shlemiel è una figura ricorrente nella cultura ebraica e non solo. In latino il termine pazzo, folle è identificato dalla parola confatus, termine che però identifica anche l’indovino il buffone e il cantastorie17. Ma chi è dunque questo shlemiel? Lo shlemiel è totalmente incapace di comprendere ciò che gli sta accadendo, è colui che di come va il mondo e delle forse che lo governano non solo non ne capisce nulla ma non riesce neppure a capacitarsene; il disagio di questo personaggio è quello di ritrovarsi in un mondo che non riesce a classificare e da cui rimane spiazzato. The Universal Jewish Encyclopedia definisce lo shlemiel come un individuo che «gestisce una situazione nella peggior maniera possibile o che è perseguitato da una malasorte più o meno dovuta alla sua stessa inettitudine18».
Abbiamo detto però che lo shlemiel è anche un veggente e Shlomo di Train de vie non si distacca da questo ruolo, è proprio lui infatti ad avvertire gli abitanti del suo shtetl, del suo villaggio del pericolo imminente e di ciò che stavano facendo i nazisti poco lontano19 e lo fa con una gestualità volutamente esagerata e concitata come nella tradizione comica derivante dal teatro (per cui i gesti dovevano essere ben visibili a tutti gli spettatori) e del cinema muto in cui la carenza sonora doveva essere compensata dalla gestualità. Ma l’umorismo in questo film è soprattutto dialettico, proprio per la già citata agilità mentale che diviene verbale, resa esplicita nella scena in cui il consiglio dei saggi si riunisce per decidere il da farsi e sollecitato a fare silenzio per non svegliare i bambini uno di loro protesta «ma rabbino, come possiamo pensare senza parlare??»
Shlomo avrà la folle idea di costruire pezzo per pezzo un treno del tutto simile ai tristemente famosi convogli nazisti che deporteranno migliaia di persone alla morte. Ma il treno di Shlomo li porterà alla vita e alla libertà in Palestina. L’idea viene accolta nello shtetl dal principio con perplessità, ma presto inizieranno i preparativi perché, come dice il rabbino «per bocca degli scemi parla il Dio degli ebrei». Inizierà quindi una grande farsa in cui ogni abitante del villaggio interpreta un ruolo, alcuni si “fingono” ebrei, altri soldati tedeschi un ex impiegato delle ferrovie si improvvisa manovratore. Anche di travestimenti è ricca la tradizione ebraica ed è forse come ritiene Allen Guttmann: «Il prodotto della situazione sociale degli ebrei dell’Europa orientale in quanto minoranza che mantenne un’esistenza precaria all’interno della più larga cultura del cristianesimo»20 attraverso la maschera, attraverso la ridicolarizzazione dell’altro, l’ebreo trova un modo per guardare a se stesso con autoironia. Da qui la scelta del linguaggio comico, interpretare se stessi caricandosi di stereotipi, di maschere che dagli altri vengono affibbiate per assecondare e risultare divertenti e quindi riuscire a sopravvivere. I dialoghi nella versione italiana sono curati da Moni Ovadia che si trova qui a misurarsi con temi a lui cari e che ha già percorso nella sua lunga drammaturgia. Tra folgoranti battute in stile cabaret yddish, dà voce alla perdita dello shtetl, del villaggio lontano e finisce per riconciliarlo con il mondo. Infine come in una rappresentazioni di Ovadia, in Train de vie, la narrazione è spesso interrotta da musiche e balli dalla marcata gestualità (le musiche sono di Goran Bergovic), perfettamente in linea con la tradizione concertistica ebraica, ma anche zingara, che offre un quadro molto didattico di integrazione culturale.
Uno dei temi entrati ormai nel DNA della cultura ebraica è quello della diaspora, del viaggio.
«Una delle caratteristiche fondamentali dell'ebreo è il viaggio. Questo piccolo popolo ha sempre viaggiato e ho l'impressione che continuerà a viaggiare, malgrado l'esistenza di una terra che, in qualche misura, è ebraica. Il viaggio è davvero una dimensione pregnantissima nella cultura ebraica»21

In Train de vie il viaggio è sì quello per la salvezza, per la terra promessa ma è anche un viaggio che si svolge in treno e non può che essere la triste metafora dei tanti altri viaggi che conducevano ai campi di sterminio. Il treno che i bambini del film descrivono come «tutto fatto d’oro e in grado di volare sopra alle nuvole» dal canto suo oltre che avere in questo film l’ambivalenza di vita o morte è anche un mezzo indissolubilmente legato al cinema, sia perché una delle prime rappresentazioni filmiche, dei fratelli Lumiére L’arrivèe d’un train à La Ciotat del 1895 ritraeva un treno, sia perché il treno stesso è cinema, in quanto in esso come in sala , noi siamo fermi mentre sono le immagini che si muovono.
La storia di Train de vie si articola in una struttura favolistica, quasi onirica. Il cinema ebraico è molto legato al sogno in quanto entrambi si manifestano attraverso la visione. Lo psicologo Christian Metz22 paragona la situazione onirica al buio della sala, da cui ci sentiamo protetti, qui come nei sogni ci possiamo distaccare dalla visione ma essa è una parte integrante del nostro io e distaccarsene significa rinunciarvi. Al livello psicologico quindi si attua una contrapposizione, la visione è manifesta a tutti e appaga il nostro bisogno di visibilità per avere conferma della nostra esistenza, ma questo aspetto è anche in contraddizione con il nostro bisogno di nascondersi per sentirci protetti. Il film inizia con un «C’era una volta…», ma alla fine del film la favola finisce e quell’avventura rimane racchiusa come in un libro. Vediamo Shlomo in un primissimo piano «Questa è la storia vera del mio villaggio…quasi vera», l’inquadratura si allarga ad un primo piano e vediamo Shlomo dietro al filo spinato con la triste divisa dei prigionieri nei campi di sterminio. L’impatto con il pubblico è volutamente brusco, esso è stato cullato fino a quel momento in una fiaba, dai preparativi per una recita, in un ambiente solare e sereno e viene, con una sola inquadratura riportato alla realtà tetra e angosciante della nostra percezione storica. Forse questa chiusa shock vuole anche essere un ammonimento, come a dire che si può fare ironia su tutto anche sull’olocausto ma… «meditate che questo è stato».23

Considerazioni.

Vogliamo vivere!, Jakob il bugiardo e Train de Vie sono tre film molto diversi tra loro, è tuttavia possibile trovare in essi significativi punti in comune. In questi film emerge forte l’aspetto della messa in scena e della teatralità che se per Lubitch e Mihaileanu diviene del tutto esplicita nella recita e nel travestimentoa scopo di beffa, per Kassovtz assume una forma più implicita. Jakob non si traveste, non cambia le sue fattezze fisiche, il suo camuffamento non è tanto fondato su ciò che lui fa credere ai compagni bensì su ciò che loro credono di lui.
Nel film di Kassovitz si cerca una verosimiglianza storica per cui la realtà non viene ribaltata, nei film di Mihaileanu e di Lubitch, invece, l’intento è quello di offrire, attraverso un reale travestimento fisico, un nuovo punto di vista allo spettatore, onirico farsesco e irreale. In questi due film il travestimento è l’arma di salvezza e il mezzo per la libertà è il treno per Train de vie o l’aereo per Vogliamo vivere! Il viaggio è un tema comune ai tre film, ma se per Lubitch ha solo valenza positiva durante la visione delle altre due pellicole esso alterna connotazioni positive e negative. Tornando alla figura dello Shlemiel, infine, non si può rintracciare in Vogliamo vivere!, ma Jakob può essere considerato tale, in quanto soggetto incastrato in un meccanismo più grande di lui, ingranaggio rigido in un sistema che richiede elasticità, egli non sa gestire con prontezza una situazione che si evolve rapidamente, al cui passo lui non sa stare.




Note:
1. LEHMAN ENGEL, The American Musical Theater: A Consideration, CBS-Macmillan, New York 1967. Riportata da FRANCO LA POLLA, L’età dell’occhio – il cinema e la cultura americana, Lindau, Torino 1999, p.209
2.CHAIM BERMANT, The Jews, Sphere, London 1977. Riportata da LA POLLA, L’età dell’occhio cit., p.210.
3. Cfr. CARLO IZZO, Umoristi inglesi, ERI, Roma-Torino 1963, p. 37.
4. Cfr. STUART M. KAMINSKI, Generi cinematografici americani, Pratiche, Parma 1997, p. 208
5.GUIDO FINK, Non solo Woody Allen. La tradizione ebraica nel cinema americano, Marsilio editore, Venezia 2001, p. 20.
6.GIORGIO CREMONINI, Playtime. Viaggio non organizzato nel cinema comico, Lindau, Torino 2000, p. 72.
7.LA POLLA, L’età dell’occhio, cit., p. 217.
8. GUIDO FINK, Ernst Lubitsch, La Nuova Italia, Firenze 1977, p. 104.
9.ERNST LUBITCH, Mr. Lubitsch Takes the Floor for Rebuttal, in «NEW YORK TIMES» New York , 29 marzo 1942.
10. Fink, Ernst Lubitsch, cit., p. 97.
11. cfr. FINK, Non solo Woody Allen, cit., p.142.
12. FINK, Non solo Woody Allen, cit., p. 21.
13. MAURIZIO PORRO, La sete di speranza è peggio della fame di cibo, in «CORRIERE DELLA SERA», 11 febbraio 1999.
14.ALBERTO CRESPI, Intervista a Radu Mihaileanu, in «CINEFORUM» n.381, gennaio 1999
15.Ibidem.
16 Cfr. KARL JASPERS, La questione della colpa, Raffaello Cortina Editore, Milano 2001, pp.22 e segg. Cfr. PRIMO LEVI, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 2003, p. 53.
17.ROBERTO ESCOBAR, Train de vie, in «IL SOLE 24 ORE» 31 gennaio 1999.
18.Definizione riportata da LA POLLA, l’età dell’occhio, cit., p.209
19. Curiosamente anche nel romanzo autobiografico di ELIE WIESEL, La notte, La Giuntina Editrice, Firenze 2001, pp. 11 e segg. è il matto del villaggio ad avvisare gli abitanti dell’eccidio che i nazisti compievano nel bosco vicino.
20. ALLEN GUTTMANN, Jewish Humor, in LOUIS D. RUBIN JR. (a cura di), The Coinic Imagination in America, Voice of America, Forum Series, Washington 1974 riportata da LA POLLA, L’età dell’occhio cit., p.213.
21.MONI OVADIA, Perchè no? L'ebreo corrosivo, Bompiani, Milano p.32.
22. Cfr. FINK, Non solo Woody Allen, cit., pp. 23 e segg.
23.PRIMO LEVI, Se questo è un uomo, Einaudi scuola, Milano 1996, p.1.