La produzione cinematografica “occidentale” di Ang Lee, regista taiwanese classe 1954, colpisce per il suo estremo eclettismo. Una comparazione anche superficiale tra La tigre e il dragone (2000) ed Hulk (2003) basterebbe per renderne conto. Confessiamo qui di non amare molto Lee, soprattutto di non apprezzare quello che è un po’ il sottile filo rosso che lega le precedenti opere dell’autore, ovvero una sensazione di dejà-vu, che rende il suo cinema sicuramente ben costruito, ma non originale.


I segreti di Brokeback Mountain, (in)atteso Leone d’oro all’ultimo festival di Venezia, pioggia di Golden Globe, e probabilissimo vincitore di Oscar nelle più importanti categorie, ci ha perciò stupito. Perché veramente maturo. Perché lontano dai limiti della trascorsa cinematografia del regista.
La vicenda è nota: un amore omosessuale tra due giovani, Jack (Jake Gyllenhaal) ed Ennis (Heath Ledger), descritto lungo un arco di tempo di venti anni. Fino alla morte di Jack.
Ma è il resto a fare il film e a convincerci. Intanto il paesaggio: i due giovani trovano lavoro come mandriani, un’intera estate da trascorrere soli a pascolare pecore sulla montagna che intitola la pellicola. Lee dimostra un senso dello spazio inaudito, che rammenta, ma non è che un pregio, perché il ricordo è stimolante, Corvo rosso non avrai il mio scalpo (1972), di Sydney Pollack. Un altro capolavoro che stravolgeva i canoni classici del genere Western, immettendovi una ricerca della solitudine pronta a farsi condanna per il protagonista.
Il primo tempo del nostro film, innegabilmente più poetico e coerente nella struttura, è cadenzato dal panorama e dalle sue variazioni stagionali. Siamo in un luogo topico, all’interno di un vero e proprio cronotopo, lo spazio ed il tempo si compenetrano, e stimolano i rapporti tra i due giovani protagonisti, spaesati dal paesaggio stesso, cassa di risonanza della loro passione. In una certa ottica interpretativa, è lo spazio a tentare i due: o meglio, e lo vedremo, è lo spazio a contenere in sé il germe della tentazione. Panorami mozzafiato si susseguono, ed il rischio dell’oleografia, magari sfiorato, non è mai raggiunto: lo spazio coincide con le coordinate del paradiso. L’alternanza delle stagioni è metaforica, se vogliamo, basti pensare alla nevicata improvvisa, così rapida, così vicina all’esplosione della passione tra i due. E come tale, destinata a sciogliersi ben presto sotto il sole caldo della realtà.

La perdita del paradiso è il tema del secondo tempo del film: i due vengono cacciati, rei di aver lasciato morire alcune pecore, sbranate dai lupi. Come nella Genesi biblica, d’altronde, anche qui c’era un unico imperativo dichiarato dal padrone-demiurgo, quello di non abbandonare mai il gregge: comando evidentemente disatteso. Ma, taciuta, c’è la scoperta, da parte dello stesso, della relazione omosessuale che rapisce i protagonisti.
Alla cacciata dal paradiso segue la vicenda per così dire terrena dei protagonisti. Se allora è vero che il film di Ang Lee ripercorre con sicurezza il genere Western, naturalmente variandone le regole, e dunque la passione impossibile è adesso una relazione omosessuale, il film è soprattutto una metafora eccezionale della Genesi biblica: eccezionale nel senso che ha origine da una eccezione. Si potrebbe accettare l’idea di una postmodernizzazione della Genesi. E così il sudore della vita, il travaglio ed i dolori del parto, ai quali il Dio biblico condanna Adamo ed Eva, sono raccontati e vissuti da due uomini, che sono precipitati in un mondo ostile alla loro libertà. Jack si sposerà con Laureen, figlia di papà, dalla quale avrà un figlio disobbediente, Ennis con Alma, dalla quale avrà due figlie.
Se era il trascorrere delle stagioni ad indicare il passare del tempo durante la permanenza in paradiso, è soprattutto la breve serie di incontri di Ennis con la figlia maggiore a precisare i venti anni che il secondo tempo snoda. Dopo il divorzio da Alma, infatti, Ennis si rassegna (?) ad una vita di solitudine, in un vecchio caravan parcheggiato in mezzo alla campagna. Forse lembo di memoria, frammento o scheggia del paradiso perduto. Le visite della figlia, sempre più grande, scandiscono il tempo: sarà l’ultimo incontro, ed il preannuncio del matrimonio di questa, a chiudere il sipario sulla vicenda, con Ennis deciso a riallacciare le trame di una vita di affetti trascurati. Questo dopo la morte di Jake.
Brakeback Mountain resterà per entrambi il luogo della memoria, quello verso il quale i loro incontri sporadici, piccoli guizzi di felicità, conducono o tendono sempre, come possibile riattualizzazione della felicità perduta. Ma nel mezzo si è intromesso il tempo. E perciò l’ultimo desiderio di Jake, avere le proprie ceneri gettate al vento della montagna, non sarà realizzato: i suoi genitori, inaspettatamente consapevoli della verità, si oppongono, e non permettono ad Ennis di esaudirlo. Come è cambiato il tempo, anche il vento che soffia non è più lo stesso, a Brokeback Mountain.

E’ nel secondo tempo che una maggiore sintesi avrebbe portato maggiore scorrevolezza. Nonostante ciò, resta comunque l’impressione di un film importante, di una densa metafora sulla vita, sulla perdita della felicità, sulla necessità di scegliere, per vivere. Un bel melodramma asciutto, senza la volontà o l’idea delle lacrime: dopotutto la commozione è negata dal Genere, e nel finale di Sentieri Selvaggi John Ford allontanava il protagonista Ethan Edwards subito prima del sorgere dei sentimenti.
E, non si sottovaluti, Brokeback Mountain è anche una bella pagina di cinema: mi basti citare l’inquadratura meravigliosa durante la quale Jake ed il ragazzetto messicano si dissolvono nel nero della notte. Niente avrebbe potuto alludere meglio al loro incontro sessuale: il nero che gli inghiotte è il cinema che ha pietà per loro. E’ lo spazio malato che si rifiuta di mostrarsi, perché contraltare del paradiso perduto. E’ il nero oltre il quale c’è la morte che già lo corrode.