Sembrerà un’ovvietà, asserire che La stella che non c’è, nuovo lavoro di Gianni Amelio, sia un’esperienza visiva. Perché, è vero, il cinema è in sé arte della visione. E dell’ascolto. Ma, nella grande famiglia degli Autori cinematografici, ci sono registi per i quali la visione occupa un gradino più alto, nella scala ipotetica degli ingredienti del cinema. E forse ciò che meglio può definire il film che analizzeremo è proprio il suo essere viaggio dello sguardo.
La trama è semplice, è per certi versi assurda: Vincenzo Buonavolontà (Sergio Castelletto) è un operaio specializzato nel controllo di altiforno. La fabbrica dove lavora, l’Ilva di Bagnoli, viene venduta ai cinesi, e quindi smantellata: l’uomo perde il lavoro. Resosi conto di un grave difetto all’impianto che potrebbe provocare un tremendo incidente, si imbarca a spese proprie verso Shanghai, con una nuova centralina. Ma l’impianto è stato venduto, e si trova chissà dove. Ecco allora che, accompagnato da una giovane traduttrice (Tai Ling), intraprende un viaggio estremo, alla sua ricerca.
Si potrebbe lavorare in negativo: elencare ciò che il film di Amelio non è. Perché la prima grande impressione che il film provoca è un disorientamento. Si inizia con una situazione di disagio sociale: quasi da film inchiesta. Poi si trasmigra verso un taglio drammatico, o documentaristico, a seconda dei momenti. Ma si tocca pure la commedia. E non è il caso di sostenere la commistione di Generi: quanto il contrario, il film non è nessuno di essi. Perché nessuno di essi interessa realmente Amelio. Tratto da una pregevole opera letteraria, La dismissione, di Ermanno Rea, il film non è nemmeno definibile come “tratto da”, visto che inizia laddove il romanzo termina. Caso raro di seguito cinematografico di un romanzo. Ma già a questo ci eravamo abituati, dopo il trattamento decostruttivista di Nati due volte di Pontiggia, all’origine de Le chiavi di casa.
Cerchiamo di capire meglio. Ha osservato Amelio “Il film potrebbe essere letto come una pellicola di fantascienza, racconta (…) storie possibili, non vicende accadute”. Il primo aspetto fantascientifico del film è quello di descrivere una questione morale, in un mondo, come il nostro attuale, che ha seppellito l’etica sotto le macerie dell’individualismo. Vincenzo, spinto da un assoluto senso di responsabilità, apre la sua propria sfera individuale alla scoperta dell’altro. Ed il film è in questo senso una favola, una bella favola. La Cina, di cui parleremo, è l’atto liberatorio di un personaggio che ha scelto di ricominciare, e di riuscirci. In questo senso, Amelio opera sia un ribaltamento rispetto a vicende precedentemente raccontate, ad esempio il protagonista di Lamerica era un mascalzone, colpito (al cuore?) dalla povertà di un paese; sia un approfondimento di vicende recenti, per cui la questione morale, centrale in Le chiavi di casa, è qui data in partenza. E non è più la vita a costringere il personaggio alla ricerca del cambiamento: subentra adesso la volontà conscia di operare per il bene altrui. La necessità morale è imperativa.
Vincenzo Buonavolontà è un personaggio del quale non sappiamo, e non sapremo mai, praticamente niente, al di fuori dei limiti della vicenda: quasi un unicum con la propria bontà, (il cognome(n) omen è tutto un programma). Vista la passione di Amelio per il genere Western, viene naturale accostare il personaggio al protagonista di Per un pugno di dollari di Leone: anche lui privo di passato e di futuro, solo presenza - presente sullo schermo. Ma quale abisso sta tra i due: perché Amelio, padre di un cinema oramai diretto verso la rarefazione, suggerisce. E da un piano di nebbia innalza ombre di passato. Vincenzo è un uomo (forse l’Uomo) in cerca di se stesso.
Lin Hua, la traduttrice che lo accompagna, nasconde un grande segreto, che scegliamo di non svelare nel nostro scritto, ma di tacere, solo dicendo che è la patria di un altro viaggio ben più profondo. E viene da credere che sia il viaggiare la ragione profonda del viaggio.
La Cina è vicina, recitava un adagio in voga quasi due decenni fa. Non certo per Amelio: che ci mostra un paese vergine, cioè incontrato per la prima volta dal nostro sguardo. Dal Fiume Azzurro emergono agglomerati popolari, industriali, alveari di case popolati all’impossibile, strade perdute su distese desertiche. Passando da Shanghai a Wuhang, da Chongquing a Ci Qi Kou, e fino alla Mongolia, il taglio documentaristico si rende sempre più metaforico.
Il “luogo” reale del film è forse quello dell’apologo fiabesco. E se la piccola epopea non va a buon fine, tanto che lo spettatore scoprirà presto dove la centralina va a finire, cioè in un cumulo di altre centraline, quasi fosse il deposito delle mille altre storie che il regista avrebbe potuto raccontare, è qualcosa di più sottile e più profondo a mutare, e ad andare in porto. Per cui, se Vincenzo ad un certo punto prova a riparare il giocattolo del bambino, è lì che il film acquista il proprio centro di gravità permanente: nel passaggio dal tentativo di riparazione di un oggetto ritenuto indispensabile (l’altoforno) a un oggetto apparentemente inutile (il giocattolo, appunto).
Alla fine, se Vincenzo sostiene “E’ andato tutto bene. Sono stato fortunato”, c’è da credergli: la stella che mancava, la stella che adesso c’è, è il punto di equilibrio tra il dovere sociale ed il dovere privato, rivolto al proprio ego.
Il pianto di Vincenzo è il primo grido di un nascituro, dell’uomo nuovo, rinnovato nell’Altro.