Woody Allen è come il Natale: torna una volta l’anno, e da tempo è entrato a far parte della tradizione del mondo cinematografico. Ma ancora come il Natale, non sempre è memorabile, e alle volte, non appena passato, ne aspettiamo un prossimo migliore. L’uscita di Scoop è di questo genere, ci riporta infatti ad una tipologia di opera(zione?) meno profonda, ed un po’ furbetta, rispetto al precedente, ed eccezionale, Match Point. Tanto che alcuni critici hanno un poco storto il naso, di fronte ad una pellicola che hanno semplicemente letto come il ritorno ad un recente passato (vedi La maledizione dello scorpione di giada, o gran parte della produzione alleniana di inizio 21° secolo). In verità Scoop costituisce lo specchio comico di Match Point: è come se il regista risciacquasse nelle acque tranquille della commedia, i torbidi panni indossati in Match Point. Mi corre alla mente ciò che Winckelmann, padre del Neoclassicismo, diceva a proposito della sua concezione di bellezza ideale: simile alla “profondità del mare che resta immobile per quanto agitata ne sia la superficie”. Ecco: questo era Match Point, l’immobilità delle ingiustizie terrene, nonostante un omicidio le agiti; Scoop è il completo ribaltamento dell’immagine: Allen cerca di porsi dall’altra parte del microscopio, e sotto le acque tranquille della commedia, quanti movimenti! In questo senso, il vero problema del film è la superficie, troppo simile a tante altre già viste, tanto da poter essere confusa con la superficialità.
Allen stesso, nelle interviste che hanno accompagnato la promozione del film, ha voluto sottolineare il sottile rapporto che stringe Scoop a Match Point, e che il nostro testo vorrà affrontare.
Primo punto di contatto, il plot: ovvero, entrambi i film utilizzano un impianto narrativo giallo, e se Match Point tendeva al noir, Scoop si sporge verso la slapstick comedy americana. Ma entrambi hanno un ruolo apologetico. Se il primo (rimandiamo per questo al nostro articolo “Match Point: il caso dopo il silenzio di Dio”) ci parlava dell’ingiustizia, ribaltando l’assunto dostoevskyano in un meno rassicurante “sulla terra, il delitto paga”, Scoop cerca di scandagliare le classi sociali. E, se predilige l’ironia, non per questo sarebbe privo di un’arma tagliente. Per cui tutto il dialogo tra Allen e la Johansson che precede il party a casa dell’aristocratico Lyman, presunto omicida, potrebbe (o vorrebbe) essere un velato j’accuse alla distanza che, ancora oggi, divide aristocrazia e classe media. Ma ciò che emerge, piuttosto, è che il regista newyorkese non è capace di andare al di là dei luoghi comuni, o comunque retrò, su una città che non capisce. Ed in questo senso, due osservazioni sono d’obbligo. La prima: questa tematica era già contenuta in Match Point; la seconda: Allen la ripropone perché alla debacle Scoop sostituisce il riscatto, e Sondra Pransky avrà la sua vittoria. Solo Sid-Allen è stritolato dentro le morse di un divario sociale che lo uccide, per l’unica colpa di aver scelto il momento sbagliato per l’azione. Mi è però naturale notare la struttura ludica del film: Scoop è un film-game, che ai giochi fa continuo riferimento (basti pensare ai tarocchi, o alla grande caccia al ladro messa in scena). Ed allora, con amarezza, forse è anche il finale da includere nel gioco, nella finzione, nell’ironia, che semplicemente riflette in modo contrario la realtà di un mondo diviso ancora in caste, e che non ammette riscatti sociali.
La colonna sonora è, insieme all’ambientazione, l’altro elemento collante. Ma se la musica operistica italiana costituiva un “più di senso” nell’economia di Match Point, l’uso di Tchaikowsy e Grieg non va al di là di una leggera brezza ironica (da Il lago dei cigni al lago, reale, del prefinale, già debitore di tanto Cechov), che pare avere lo scopo principale di far sentire lo spettatore a casa propria, in un’opera che, per struttura e situazioni, provoca già un forte senso di dejà-vu.
Allen ambienta ancora a Londra la sua vicenda: e se le dà comunque un ruolo da protagonista, evitando i paesaggi-cartolina, la conversazione tra Allen e la Johansson nel barettino, proprio sulla differenza tra Londra e New York, suona molto come un spot da agenzia turistica.
Anche il bel ponte costituito dalla presenza di Scarlett Johansson in entrambi i film, qui non ci soddisfa, per la poco convincente interpretazione dell’attrice, spesso fuori parte, o comunque non padrona dei giusti tempi comici.
Per molti registi (basti pensare ad Eastwood) la vecchiaia è la stagione più produttiva: aspettiamo il prossimo anno per poter dire lo stesso del grande Woody.