Il personaggio di Gesù Cristo non è materia drammaturgica di facile trattazione. Non per questo il cinema si è esentato dal parlarne. Ma proprio per le delicate implicazioni, sia religiose sia sociali, dell’argomento trattato, si è rivelato un ostacolo parecchio ostico per molti dei registi che si sono cimentati in quest’ardua impresa. In genere ciò che il cinema ha restituito di una tale e complessa figura è un’immagine sbiadita, imprigionata nella propria autoreferenzialità di icona sacra e, dunque, inamovibile dal simulacro che la tradizione, ecclesiastica e non, ha fatto di lei nel corso dei secoli. Il Cristo di Cecil B. De Mille, di George Stevens, di Franco Zeffirelli, di Mel Gibson, al di là degli innegabili pregi formali che le opere di questi registi presentano, è una sorta di statua granitica, intrappolata nella propria aura sacrale, troppo preoccupata di restituire quella deità che tanto affascinava i cineasti sopra citati. Invero è diverso il caso dei Gesù di Pier Paolo Pasolini e Roberto Rossellini. I due registi italiani hanno, infatti, messo in luce gli aspetti più umani e antiepici del Messia nuovotestamentario; è in particolare Rossellini che si sofferma sulle vicende quotidiane della parabola terrena di Cristo: il lavoro artigiano, il rito di vestirsi per andare al tempio, di riparare una barca o una rete da pesca… Ma al di là delle differenze, permane tra tutti questi autori una concezione comune di una certa tipologia di cinema, che si fa, in primo luogo, visione e sguardo. Per Stevens come per Pasolini, per De Mille come per Zeffirelli, il cinema è occhio extradiegetico che scruta e osserva, vede e registra. E afferma perentoriamente ciò che si vorrebbe dimostrare, al sicuro, al riparo dietro la benevolenza della rassicurante (e amata) macchina da presa.
Diversamente, il cinema di Scorsese vive dentro la storia raccontata; è narrazione intradiegetica, che abolisce le barriere, i filtri protettivi tra lo spettatore e ciò che viene proiettato sullo schermo. Il pubblico di Scorsese è chiamato in prima a persona a partecipare alla vicenda a cui sta assistendo. Ma la storia, nel caso dell’Ultima tentazione di Cristo, non è quella di un tassista alienato e psicopatico, o di un giovane italoamericano cresciuto nel ghetto di manhattan, o di un pugile del bronx… Qui si parla di Gesù di Nazareth, figlio di Dio. Al di là delle discussioni, delle accuse di blasfemia, della diabolica Ultima tentazione di cui Gesù è vittima, è la scelta di una narrazione da un punto di vista “interno” alla diegesi a rappresentare la novità più eclatante rispetto alla tradizione agiografica precedente, e successiva. Novità ancora più rilevante perché afferente alla sfera linguistica propria del mezzo cinematografico, estetica e semiotica. Per la prima volta nella storia del cinema un film entra dove nessuno si era mai avventurato: dentro la testa di Gesù. Per tutto l’arco del film lo spettatore ha libero accesso ai pensieri, ai dubbi, alle titubanze del giovane falegname di Nazareth, tanto impreparato ad andare incontro al suo destino (meraviglioso e atroce a un tempo) quanto indifeso di fronte agli sguardi acuminati e indiscreti del pubblico. È un Gesù trafitto, sottratto, privo della sua deità. È dunque, prima di tutto, prima di essere Dio e idolo adorato, UOMO. I mezzi usati da Scorsese per tenere lo spettatore ancorato dentro la testa del Messia sono quelli “classici” della nouvelle vague francese e del suo modo di fare cinema. La voce fuori campo di Gesù, corsia preferenziale per i pensieri più intimi del protagonista e porta aperta sulla sua anima, che rende il suo incessante monologo interiore, l’uso di soggettive, movimenti di machina nervosi, ralenti… Scorsese compone una sinfonia visionaria, per nulla interessata a una rappresentazione del reale, ma fortemente onirica e interiorizzata, tesa a descrivere visivamente l’universo intimo e psicologico del Redentore del Nuovo Testamento. Il risultato è un’opera coraggiosissima e originale, che risulta tanto lontana sia dagli stilemi “mitografici” con cui registi come De Mille e Zeffirelli hanno voluto rendere la divinità del Salvatore, sia dall’estetica documentaristica di un Rossellini (nonostante l’apparente essenzialità visiva che l’Ultima tentazione e Il Messia rosselliniano sembrano condividere).
L’opera, la cui sceneggiatura (basata sull’omonimo romanzo dello scrittore greco Nikos Kazantzakis) è stata scritta da Paul Schrader, narra le vicissitudini del giovane nazareno durante gli ultimi tre anni della sua vita, quelli della predicazione e della presa di coscienza della sua missione. Fino alle terribili Passione e Crocifissione finali. Gesù non conosce che cosa per lui ha in serbo il destino. Ma è preda di tragici presentimenti. Deciso a rifiutare di morire sulla croce per riscattare gli altri uomini, è attratto dalle piccole gioie mortali: il lavoro, l’amore di una donna (Maddalena), la famiglia… Ma Dio ha in mente per lui ben altro compito. Gesù parte allora, insieme al migliore amico e fidato Giuda, per le terre di Israele: insieme cercheranno di scoprire qual è la sua terribile missione. E sarà proprio Giuda, con un sacrificio ancora più grande di quello richiesto all’amico, a rendere possibile il salvifico “piano divino”. Ma sulla croce, Gesù cade vittima della tentazione più subdola e pericolosa (L’ultima tentazione): è Satana in persona a tendergli la mano, offrendogli in cambio della sua sofferenza e del suo dolore la felicità di una vita normale, libera dal peso della divinità. Sarà ancora una volta Giuda a riportare sulla retta via lo spaventato Gesù, rimettendolo, per la seconda volta, sulla croce.
La pellicola di Scorsese, a uno sguardo critico attento, si rivela densa di nodi concettuali e tematici. Il lato divino di Cristo non annulla la componente umana, ma anzi l’esalta facendone risaltare, per contrasto, la debolezza e il carattere finito “dell’essere uomini”. Ciò che maggiormente caratterizza questo Cristo originalissimo e complesso è la profonda dicotomia che lo attraversa, un dualismo estremo che lo vede vittima e preda di poli d’attrazione contrastanti e laceranti. Del resto, il cinema di Scorsese, da sempre, si costruisce su un bipolarismo assolutizzato, che ingloba ogni elemento e dove ogni cosa diventa un simbolo, una presenza oggettuale che può essere ascritta a uno dei due “schieramenti in campo”: il bene e il male, vocazione al sublime e legami terreni, ascesi e carnalità, l’anima e il corpo, Satana e Dio… Il Cristo scorsesiano è l’apoteosi di questa duplicità ontologica: spaccato in due da un lato divino e una parte umana. Il film si configura come un percorso di scarnificazione, di spoliazione delle sue vestigia da uomo; percorso che potrà dirsi concluso solo alla fine (negli ultimissimi secondi), sulla croce, quando con un atto estremo di volontà Gesù respingerà la tentazione satanica della vita borghese per farsi Redentore e divino portatore di salvezza. Se la vita mortale e “borghese” è lo spazio della felicità e dell’autocoscienza, nell’universo dicotomico scorsesiano, la sfera del divino sarà il luogo del dolore e della sofferenza. Le oscure e incomprensibili “chiamate” che preannunciano a Gesù la terribilità (o la grandezza) del suo destino si manifestano in veri e propri attacchi fisici estremamente dolorosi. Manca qualunque tipo di assenso da parte del predestinato, e, alle voci che lo perseguitano, Gesù oppone inizialmente il suo rifiuto e la sua ribellione, al fine di imporsi come unico artefice del proprio destino. Il giovane è refrattario a chinare il capo davanti alla coercizione di una forza violenta e ultraterrena che non comprende e non capisce. È forse questa irriducibilità alla rassegnazione al sacrificio l’aspetto più moderno e problematico dell’eroe scorsesiano. L’orrore di Gesù a vedersi trasformato in Dio, ad accettare il martirio della propria corporeità è superato solo con un’accettazione passiva a ciò che il Dio-Padre ha deciso per lui. Il lieto fine (se di lieto fine si può parlare) arriva solo con la rinuncia alla propria autorealizzazione. Dunque non è Gesù a possedere una natura divina, ma è la natura divina che lo possiede, lo tormenta, lo strappa alla propria carnalità, lo snatura (poiché, in effetti, ne elimina la componente umana). Essere il figlio di Dio è la rinuncia ad avere un ruolo da protagonista nella costruzione della propria vita; essere il Messia è tutt’altro che una benedizione. In termini “dualistici”, si potrebbe dire che la soluzione del plot non è determinata da una placida riappacificazione delle due parti in lotta, ma dall’eliminazione violenta e brutale dell’una sull’altra.
Un’ultima considerazione. Alla luce di quanto è stato detto, come si deve considerare il sacrificio del Messia? Una patologica rinuncia a farsi artefice del proprio destino, o una scelta coraggiosa dettata dalla Fede e dall’amore per l’uomo e Dio? Entrambe le interpretazioni sono valide. Scorsese è estremamente attento a non condurre lo spettatore verso un giudizio unico e incontrovertibile. Ognuno giudicherà ciò a cui ha assistito solo in base alla propria cultura e inclinazione. Invero la scelta finale di Gesù di respingere la tentazione e morire sulla croce è comprensibile solo nell’ambito di uno sguardo religioso davvero sentito, al di fuori del quale, la decisione del nazareno potrebbe sembrare l’ennesima riprova di come i personaggi scorsesiani (Big Bill, Charlie, Travis…) siano prigionieri e vittime di un narcisismo ossessivo e megalomane, che li porta a cercare (attraverso un gesto sacrificale ed eroico) di entrare in una dimensione mitica e (a)storica e li rende incapaci di vivere nell’autoconsapevolezza una vita normale. Davvero il regno di questo Gesù (e degli altri Cristi scorsesiani) “non è di questo mondo”.