Chiunque si inoltrasse negli intricati e fragili sentieri che uniscono il cinema con il giornalismo, finirebbe inevitabilmente per smarrirsi nella labirintica trama di “Quarto potere”(1941) di Orson Welles. È come se l’impossibilità di trovare una soluzione all’enigma wellessiano, avesse lasciato una sorta di spazio bianco nella storia del cinema, che i registi, appassionati costruttori di significato in cerca di narrazioni plausibili, hanno provato a riempire con le loro pellicole. Un cortocircuito cinematografico da cui si è innescato un dialogo nel tempo in frenetica evoluzione. Un dialogo che non ammette soluzioni, ma solo aggiunte: verità e finzione, categoria che necessitano al più presto di una risemantizzazione, questione etico/deontologica della stampa nel tessuto sociale, la natura ambigua del giornalismo, allo stesso tempo merce da impacchettare e vedere al pubblico di massa e autentico motore dei processi democratici delle nazioni moderne. Sono queste alcune delle tematiche che la rappresentazione cinematografica del giornalismo ha prodotto in oltre un secolo di storia. Riflessioni che scorrono leggere in film indimenticabili come “Prima pagina” (1974-Billy Wilder), “Quinto potere” (1976-Sydney Lumet), “Tutti gli uomini del presidente” (1976-Alan J.Pakula). Un universo cinematografico fatto di reporter alcolizzati alle prese con complicati casi da risolvere, direttori cinici e severi, giornaliste seducenti e dal temperamento mascolino. E tanti altri sono i volti dei personaggi che tra romantiche storie d’amore, scalate al successo ed efferati omicidi popolano il multiforme spazio del newspapermovie o meglio mediamovie. Qui, però, vorrei soffermarmi su quella che può essere definita una nuova fase nei rapporti che legano il cinema con il giornalismo. Un cambiamento che potrebbe mutare significativamente la scena del mondo dell’informazione. Con l’uscita di “Fahrenheit 9/11” (2004 - Michael Moore), il cinema si impossessa degli strumenti comunicativi e dei meccanismi propri del giornalismo d’inchiesta.
La forma nobile del giornalismo, il banco di prova del giornalista maturo, tant’è che le inchieste sono spesso prodotte dalle grandi firme di un giornale, diviene un arma a servizio del grande schermo. La natura intertestuale del rapporto tra cinema e stampa, fa presagire la possibilità di un modificarsi dei canoni classici attraverso cui il pubblico riceve uno scoop, una notizia, un’informazione.
Di seguito riporto le parole di Abbas Kiarostami, un regista che nei suoi film ha spesso incrociato le strade del giornalismo: “L’arte del cinema e l’inchiesta giornalistica hanno molto in comune; rispetto al reportage che il giorno dopo è già invecchiato e che viene inesorabilmente stritolato dall’ingranaggio dell’informazione, il cinema ha un vantaggio: rimane nel tempo, può usare un linguaggio più profondo, può aspirare a non essere effimero[…]. Qualche volta sono stato un autentico reporter della vita, a modo mio si intende. Da “Close up” (1990) a “E la vita continua” (1992) ho provato a misurarmi con i fatti reali nella maniera in cui lo farebbe un reporter, ho costruito un’inchiesta, ho pedinato le persone, sono tornato sui luoghi cercando le tracce del destino. Ma non è stato molto diverso da quello che viene chiamato documentario vero e proprio come in “ABC-Africa”(2001)”. Da spettatore devo dire che quest’ultimo film di Kiarostami è un vero e proprio pugno allo stomaco. Un film che ci sbatte la verità in faccia. Ci dice ecco le cose stanno così, ora che pensate di fare? Nell’assistere ad una calda notte africana si viene immersi in cinque soffocanti minuti di silenzio e oscurità, a tratti interrotti dal rumore dei tuoni e dalla tremante luce dei lampi. I nostri pensieri sfumano piano, per poi essere sommersi dalla irruente pioggia di un temporale estivo. È giorno, e la luce del mattino da un senso alle cose, anche dove un senso non c’è. Questo film è cinema perché ci porta in viaggio per realtà lontane. Questo film è giornalismo perché da voce a una realtà che altrimenti avremmo fatto fatica ad ascoltare. Ma è soprattutto democrazia perché ci permette di avere un’opinione su qualcosa di cui ignoravamo anche l’esistenza.
La forza di questa e altre opere cinematografiche, come “Bowlig a Columbine”(2002-Michael Moore), dove ci si interroga sulla strage del 20 aprile 1999 a Littleton, piccola cittadina del Colorado, ad opera di due adolescenti, risiede nella capacità del cinema di penetrare le corde più profonde dell’animo umano. Nel narrare storie d’attualità, il cinema ristabilisce un contatto con il pubblico, che il giornalismo spesso dimentica a causa di oscuri meccanismi autoreferenziali.
Insomma il grande schermo si propone come terzo “scomodo concorrente” nel già duro scontro tra stampa e tv, disegnando nuove linee nel già intrecciato labirinto mediatico dell’esistenza.