« Je m’en vay chercher un gran peut-etre »
Rebelais, sul letto di morte, attr.

L’ultimo film di Pupi Avati, La cena per farli conoscere, prende vita e si dipana utilizzando quel principio che è sia il limite che la forza del cinema del regista. Ovvero la tendenza, direi “gozzaniana”, di ricondurre ad una dimensione privata, piccola e “crepuscolare”, vicende di diversa entità e levatura. Assecondando un forte interesse per la categoria dei perdenti, dei (quasi) vinti, che Avati ha confermato anche in recenti interviste.
Sandro Lanza (un Diego Abatantuono in gran forma, essere in declino che attraversa un mondo sfasciato) è un attore di soap opera che non ha mai raggiunto il successo: in seguito ad un tentato suicidio, in realtà messo in opera per attirare disperatamente l’attenzione dei media, le tre figlie, avute da tre diverse donne, e residenti in tre diverse nazioni, si riuniscono a Roma, ognuna con il suo portato di problemi e spiacevoli ricordi che la allontanano dal padre. Organizzano perciò una cena, invitando una amica, Alma Kero, intellettuale disperata, con la speranza di farla innamorare del padre, e quindi di poterselo togliere di torno affidandolo a lei…
Il film ha il taglio della commedia: ed ha l’ambizione di volersi legare alla tradizione della grande commedia all’italiana. I richiami a Corbucci, Germi, Risi, lo dichiarano ad alta voce. L’intento, spesso riuscito, è quello di un cinema che sia brillante e struggente insieme. La famiglia entra dalla porta secondaria, e sfasciata: un padre che è tale solo per nome e comodo, respirando solo del proprio egoismo, tre figlie che quasi non si riconoscono, e diverse tra loro. Ma che poi troveranno una comune matrice, una loro “familiarità”, proprio a partire dall’iniziale voglia di sfuggire una all’altra, ognuna ad inseguire la torbida scia dei propri problemi. E la cena sarà il momento della riscoperta: una cena senza cibi (non sono quasi mai mostrati, o comunque non hanno importanza, con buona pace di Marco Ferreri), e senza evoluzione cronologica, senza scomodare Ettore Scola: una cena che è incontro di caratteri e fragilità, e quindi “eredità di affetti”.
Ma è anche il grande Federico Fellini ad essere evocato: una presenza, uno spettro chiamato a tutela, quasi un rumore di fondo, e la scelta di ricostruire la villa, vero e proprio cronotopo del film, nel mitico teatro 5 di Cinecittà, conferma tutto ciò. Come la caduta della neve, all’inizio della cena.
Tra le maglie di questa rete emergono i pregi ed i difetti dello “Stile Avati”. Nonché alcune piccole smagliature. Intanto, e va detto e riconosciuto per merito, Avati è uno dei pochi registi italiani rimasti a possedere uno stile riconoscibile. I difetti sono soprattutto l’assenza di “impennate emotive”: senza voler svelare il finale, sul quale avremmo da dire, e forse da ridire, a volte viene il sospetto di una piattezza di fondo non crediamo sempre voluta.
Ma i pregi sono in maggiore quantità, e di spessore diverso: perché il crepuscolarismo insistito previene moralismi o retoricità, ed il sottile velo ironico salva gli errori. Ironia che – si badi bene – è anche pura comicità: la scena dell’operazione di lifting di Lanza è un pezzo di bravura. Così come la vena malinconica diffusa ritiene anche l’ironia al di qua della soglia del ridere di (cattivo) gusto. Viene anche in mente Pirandello, e l’aneddoto della signora “parata come un pappagallo”… Questo vale anche per la critica, spesso sottile e mai di grana grossa, allo squallido mondo della televisione: e se il racconto dei provini nelle fogne di Milano per un reality là dentro ambientato fa divertire e riflettere (è poi così impossibile immaginarlo?), la morte di Lanza in metropolitana, in un luogo altro rispetto alle fognature, ma sempre under, riesce a far commuovere.
Se l’inizio del film cade un poco nel già visto, la descrizione delle figlie, il lento svelarsi del loro vissuto, del loro reale, mostra le grandi doti narrative di Avati, nonché la bravura, e la scelta azzeccata delle interpreti: Ines Sastre, sottile donna in carriera, fragile e piccola di fronte alla necessità di una operazione al seno (contraltare tragico al lifting di Lanza, padre che, proprio nello scoprire la malattia della figlia farà il suo vero lifting dell’anima); Vanessa Incontrada, già ammirata ne Il cuore altrove, brava, e questa non è che una ulteriore conferma; Violante Placido, nella parte di Betty, piccola sposa di un uomo complessato.
La simbologia del tre, forse un anti-harem nel quale Lanza è costretto a vivere, fa venire in mente una rilettura, in tono pacato, di “Porta chiusa” di Sartre: con le figlie a costituire la situazione di inferno che condanna il protagonista. Sino all’arrivo di Alma Kero, interpretata da Francesca Neri, impossibile deus ex-machina degli eventi, in realtà parentesi (?) ad un declino che pare inoppugnabile, quarta donna di un tris abbastanza triste. Tranne annullarsi poi nel finale: che non anticipiamo, è ovvio. Ma che abbiamo ammirato, almeno per il coraggio di non risolvere. O, almeno, per non-mostrare, nel coraggio, tutto cinematografico, di arrestarsi prima: prima di un’operazione chirurgica, prima della morte del protagonista. Come a volersi, finalmente, allontanare, dal troppo mostrare della televisione.