"Appartengono al cybermovie quei film che non stanno mai del tutto né di qua (nel territorio della realtà e dell’immagine impronta) né di là (nei territori della virtualità e delle relazioni sintetiche con la realtà). Ad esempio Nirvana di Gabriele Salvatores non rientra nei territori del cybermovie solo perché racconta di interazioni tra corpi umani “veri” e “finti” da videogames, ma perché i suoi modi di produzione visuale praticano il doppio regime generativo e ibridano i procedimenti fotografici tradizionali con strategie di ridefinizione dell’immagine realizzate al computer. Sono più cyber film come Il Corvo, con la celebre simulazione computerizzata del corpo dell’attore Brandon Lee, o Forrest Gump, di quei film che si limitano a saccheggiare temi imparati e riproposti senza particolare radicalità. Per essere cyber, il cinema deve provare sul suo corpo vivo le pratiche della contaminazione; deve farsi mutante e rigenerarsi all’infinito; esso è quel cinema che si interroga (e ci interroga) sulla sostanza del vedere e del sentire. Non basta applicare ad un personaggio un casco virtuale o qualche protesi per farlo diventare cyber: occorre che esse lavorino da subito per noi."