Anno di partenze, questo 2008: Dino Risi, Sidney Pollack, per citare gli ultimi.
Fa molto piacere, in questa fase, scorgere la possibilità di un ricambio generazionale, in seguito alla quasi totale impasse che ha stretto per un lungo periodo il cinema italiano: Gomorra, di Matteo Garrone, e Il Divo, di Paolo Sorrentino, veri trionfatori all’ultimo festival di Cannes, senza dimenticare i film di Giordana e Munzi, hanno di nuovo accesso i riflettori e l’attenzione internazionale sul nostro cinema. Su un cinema che sceglie di parlare di noi, del nostro paese, con concretezza: quasi a ripescare, direttamente dal Neorealismo, la lezione del pedinamento della realtà e della denuncia di questa. Certo, in ambito altro.

Nel 1948, anno di uscita di Ladri di biciclette, l’allora sottosegretario allo Spettacolo Giulio Andreotti si pose al vertice dei detrattori del film, sostenendo che questo voleva mostrare al mondo intero i panni sporchi italiani, e pertanto andava boicottato. A distanza di sessanta anni, parte (fortunatamente esigua) della critica e della intellighenzia italiana, ha (volutamente) utilizzato la medesima espressione andreottiana per definire il film di Garrone. Dimostrando la necessità del film di Sorrentino, attraverso l’involontaria messa in evidenza di un “sistema-Andreotti” che ancora perdura, e detta legge. A partire dalla parola che, come si sa, è l’ombra dell’azione…

Nella scena madre del film, sguardo in macchina, parlare concitato, Andreotti spiega, in un memorabile monologo-fiume, quello che è il concetto che ha sostenuto tutta quanta la sua vita, politica e privata: fare il Male, perpetrarlo, per ottenere il Bene. Concetto complesso e non immediato: bisogna amare Dio, per introiettarlo, anche se, come si dice in una bella battuta del film, mentre in chiesa De Gasperi parlava con Dio, Andreotti parlava con la gente…Il dilemma di Indro Montanelli – Andreotti è il più grande criminale della Storia italiana o l’uomo più perseguitato ? - non è affatto risolto dal film: Sorrentino evita, per quanto la materia gli permette, di prendere una posizione chiara: attraverso un sistema che la scena dell’intervista di Scalfari esemplifica. Quando, al lungo j’accuse del giornalista, che chiede ad Andreotti se tutte le accuse nel tempo mosse al senatore siano o meno un caso, lui risponde ricordando al giornalista che grazie al suo intervento il suo giornale, La Repubblica, si era salvato dal controllo di Berlusconi. E a Scalfari, che gli dice “veramente la situazione era un po’ più complessa”, Andreotti fa notare “questo vale anche nel mio caso”.

Ci sono esempi, anche recenti, di voluta Verosimiglianza. Sorrentino, per Il divo, percorre la strada della non Verosimiglianza. Servillo pare un mascherone di carnevale, ma non si dedica all’imitazione di Giulio Andreotti. Semmai, a parte esagerarne i tratti tipici, quelli che ne hanno strutturato la celebrità, per così dire, fisiologica - e allora le orecchie sono ancora più a sventola, le emicranie ancora più lancinanti, e trasformano il protagonista in una sorta di Hellraiser postmoderno, durante le sedute di agopuntura - si sottrae da tutto il resto. Perché Sorrentino sa di non potere inseguire la Verità. Ma la maschera di questa. Che la Storia non ha (più ?) una interpretazione, ma più letture, molte delle quali allo stesso modo plausibili: lo specchio nel quale Il divo più volte si riflette, è caduto, si è frantumato, in parti ognuna delle quali è Verità, ma frammentata, segmenti irregolari di un unicum oramai non ricostituibile: Verità come momento, Verità come stato d’animo…Sorrentino non crea, o meglio, ricrea, il teatro della Politica. Non aggiunge niente che non sappiamo già. Mette in scena il teatro della Politica, dopo aver compreso che di fronte ad un potere autoreferenziale, l’unico modo di rappresentazione può essere la messa in scena di questo.
Interessane la commistione di generi e citazioni scelta dal regista per questa rappresentazione: Il Padrino, Le Iene, e poi Petri, certamente: dal quale mutua l’arma del grottesco (ma con una minore evidenza): viene in mente la scena nella quale Andreotti, durante la visita a Mosca, legge un giallo a letto, sotto il minaccioso ritratto di Marx. Lo stesso giallo del quale strapperà l’ultima pagina, per non conoscerne l’assassino. La scoppiettante ouverture richiama il Pulp, la tarantinata: i morti ammazzati che si susseguono sullo schermo come negli anni, e Calvi che, impiccatosi (?) sembra guardarci, mentre la macchina da presa compie un memorabile movimento, inquadrandolo sottosopra, quasi a dirci che la Verità sta nel ribaltamento del reale.

In questa rappresentazione, le donne – la moglie, Anna Bonaiuto, la segretaria, Piera degli Esposti, la giornalista francese, Fanny Ardant - si fanno chiavi di accesso ad un mondo altrimenti chiuso, ed inaccessibile. Così la giornalista si avvicina un po’ di più all’enigma- Andreotti grazie ai consigli della sua segretaria. E un brano di Renato Zero, unica parentesi rosa ad un palinsesto televisivo a senso unico, visto che si parla del processo per mafia che lo ha appena coinvolto, diventa l’occasione, forse l’unica, di un momento tenero con la moglie.

Il resto, sta nel sottotitolo: Vita spettacolare di Giulio Andreotti.