“Il Giappone è nato da una spada”. Così dice la leggenda dei samurai. In tempi di guerre permanenti come i nostri, il mito di una vita consacrata al combattere trova rinnovato fascino.
Nell’arco di pochi mesi abbiamo assistito alle prodezze cieche di Kitano Zatoichi, a quelle pulp di Black Mamba Kill Bill, all’apologo incantato di Cantando dietro i paraventi. Ora i personaggi cari a Kurosawa vengono rivisitati in chiave hollywoodiana, strizzando un occhio al western e l’altro a La tigre e il dragone.
L’ultimo samurai è un progetto fortemente voluto dal protagonista Tom Cruise e il regista (Glory, Vento di passioni, Attacco al potere) e produttore (Shakespeare in Love, Traffic) Edward Zwick.
Si racconta la storia di un capitano del Settimo Cavalleggeri del generale Custer, Nathan Algren, la mente assediata dall’incubo d’aver partecipato al massacro di un villaggio indiano, popolato da donne e bambini inermi. Una strage nel sangue, l’orrore in nome della superiore civiltà della bandiera americana. Il giovane reduce è ridotto ad alcolico fenomeno da baraccone per la pubblicità del Winchester, nel mito della frontiera di città che si sviluppano dal nulla, sulla terra dei nativi americani sterminati.
Nathan fa il mercenario: pagato per uccidere e considerato un eroe. Come tale ingaggiato da un affarista, un consigliere imperiale giapponese, per insegnare ai nipponici l’uso delle armi da fuoco e fare di loro moderni soldati. Nel 1876 l’era Meiji apriva il Paese del Sol Levante all’Occidente, dopo secoli di splendido isolamento.
Secondo copione, si consuma lo scontro fra il comando militare spietato, vagamente incompetente, che sta nelle retrovie, e il coraggio dell’eroico capitano Algren, condito da combattimenti visivamente affascinanti, retorica, grandi paesaggi, luoghi comuni.
Il nostro protagonista si batte come una tigre contro un esercito di samurai ribelli, venendo risparmiato dal loro capo, il fiero Katsumoto (modellato sulla figura storica dell’“ultimo samurai” Saigo Takamori). Catturato, il capitano viene accolto come sorvegliato speciale in un villaggio tra le montagne, roccaforte dei samurai dissidenti. E qui il film cambia completamente passo. Rivisitando classici come Un uomo chiamato cavallo e Balla coi lupi, l’Oriente si rivela una via di fuga dai traumi esistenziali di un’orrenda modernità. Nathan riconquista una vita secondo natura, riscopre i codici dell’onore e della compassione, sino a far innamorare di sé la vedova di un samurai da lui stesso ucciso in battaglia.
Il capitano impara una nuova arte del combattimento e una diversa forma dell’esistenza. Non si tratta più di premere un grilletto, ma affrontare faccia a faccia il nemico, duellare per riuscire a conoscerlo, sconfiggerlo o morire, compiendo il proprio destino.
Nathan incontra una differente cultura, lontana dall’essere selvaggia come vuole la retorica che fa d’ogni avversario un diverso inconciliabile. Intraprende l’antica via del guerriero, sente la vita in ogni respiro di questa gente semplice, impara che la spada di un samurai è la sua anima, ma non la sua essenza.
L’ultimo samurai è un film che cresce con il passare del tempo. Come la paura umana via via che s’avvicina il combattimento. Come il tappeto di morti che ogni battaglia lascia sul campo. In particolare nel passaggio dall’arma bianca a quella da fuoco. Il tramonto di un’epoca che trasforma variopinti guerrieri con precisi codici d’onore in standardizzati operai massa dello sterminio.
L’ultimo samurai è il classico filmone epico hollywoodiano, dove ognuno troverà quello che vuole: grande Storia e piccole storie, cascami, forti emozioni, attori che t’incollano allo schermo, combattimenti mozzafiato, paesaggi esotici, semplicismi didascalici, mirabili scene sotto la pioggia, frammenti di discorsi amorosi. Un’alchimia d’altri tempi, di notevole potenza spettacolare.
Tom Cruise si danna per mostrarci quanto è bravo, il “samurai” Ken Watanabe è magnetico al punto giusto, l’ex modella Koyuki capace di rubare la scena con il solo sguardo. Le musiche di Hans Zimmer, iniziate tra il roboante e un Oriente di maniera, conquistano, con lo scorrere dell’intreccio, più raffinate sonorità drammatico-minimaliste. Peccato per il doppiaggio, inevitabilmente (?) goffo.