Guardare un film di David Lynch è come entrare in un mondo a parte, una stanza della mente che non sempre è piacevole esplorare perché nasconde incubi tra i più segreti, ferite mai chiuse, traumi che riemergono in immagini, buchi neri di paure e simboli abissalmente angosciosi. Lynch è il regista più genialmente enigmatico e contorto del cinema americano contemporaneo, quello che ha scavato più in profondità nel Male che si annida alle radici del’American way of living e la sua gioiosa vuotezza, pronta a sprofondare nell’incubo di una visione perennemente minata dall’ossessione del nulla e della morte. Sommo mistificatore della fatuità dell’immaginario americano, Lynch penetra l’incongruità di quello che ne è stato il principale mezzo di propagazione: il cinema.
Mulholland Drive è ambientato a Hollywood-Los Angeles, città tanto piena d’angeli di cartapesta cinematografica, quanto di demoni corrotti. La storia di questa pellicola è piuttosto complessa: nata come episodio pilota di una serie televisiva che poi la rete Abc si è rifiutata di realizzare, è stata salvata da alcuni produttori francesi (grazie a Canal+), che hanno rifinanziato il progetto per farne un film vero e proprio (ciò spiega anche il confuso sviluppo di alcune situazioni e la presenza di personaggi che sarebbero stati messi a fuoco meglio nel corso della serie).
Mulholland Drive è una delle più lunghe e vecchie vie di Los Angeles, che attraversa quartieri lussuosi e zone deserte per correre a strapiombo fino all’Oceano Pacifico. Da questa strada partono il film e le sue suggestioni, raccontando l’intricatissima storia che coinvolge due giovani attrici: la procace Rita, dark lady bruna che ha perso il ricordo della sua identità in un incidente d’auto, e l’intraprendente Betty, flessuosa biondina dalla fresca bellezza.
Le due vivranno come un film l’avventura della ricostruzione della personalità di Rita, in un viaggio nella memoria che riserverà molte sorprese, incluse torride relazioni saffiche e scene erotiche recitate come raramente se ne vedono al cinema. Con le loro vicende s’intrecciano altri episodi, non sempre ben legati, che ci mostrano, tra l’altro, il bieco potere dei produttori hollywoodiani (e il loro modo d’assortire i cast). La narrazione via via si complica in un folle gioco d’incastri nel tempo e negli strati onirici mentali, con continui rimbalzi fra cinema e realtà, in un moltiplicarsi labirintico di finzioni e piani del racconto.
Tutto culmina in un finale contorto e magnificamente coinvolgente, che sembra mettere in scena i doppi in disfacimento delle protagoniste, le loro ombre corrotte da un incubo. Al termine di Mulholland Drive non tutti i tasselli vanno a posto e capiremo, forse, che ogni cosa è stata una mera illusione, anzi, un brutto sogno.
La trama sembra per il regista quasi solo un pretesto per popolare la pellicola di tutti i suoi incubi ricorrenti, fattisi ormai veri e propri luoghi comuni del cinema linciano. Un personale idioma, per immagini, dell’orrore: strade notturne percorse dai fari delle auto (Cuore selvaggio, Strade perdute), nani inquietanti (Twin Peaks), il fuoco che consuma (Cuore selvaggio, Twin Peaks, Strade perdute), i particolari delle orecchie (Velluto blu), il mostro dell’inconscio, le figure nel tappeto e il teatrino perturbante di Twin Peaks, furenti personaggi in miniatura (Eraserhead), misteriosi emissari demoniaci, figure femminili completamente sottomesse o aggressivamente castranti, le sinistre apparizioni dal buio che attraversano tutti i suoi film, e un’altra delle sue ossessioni ripetutamente messa in scena, quel La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock frequente sottotesto di molte sue pellicole.
La dimensione metacinematografica è largamente presente in Mulholland Drive, infarcito di citazioni da Gilda, Viale del tramonto, killer alla Tarantino e innumerevoli situazioni del noir; con labbra rosse di peccato, gelosie, territori irrazionali, fantasie macabre, impulsi omicidi e laceranti sensi di colpa sotto il segno di Eros e Thanatos.
Lynch, anche sceneggiatore, non rinuncia alla sua ottica postmoderna, giocando con il cinema e i suoi generi, rifacendosi a universi culturali che vanno da Edgar Allan Poe a Raymond Chandler, da Franz Kafka a James Ellroy, da Edward Hopper e Francis Bacon, ai moduli estetici delle telenovelas, per riuscire a ottenere quell’inimitabile effetto di realismo allucinato, in cui ogni cosa sembra sempre pronta, pur nella sua solidità, a precipitare nell’incubo, a spalancare la scena alle presenze più terrificanti dell’inconscio, che si materializzano dietro gli angoli della quotidianità.
Il regista satura sempre e in modo claustrofobico il senso dell’inquadratura, conferendole un’atmosfera gravida d’angoscia, d’incombente e perenne minaccia, con un utilizzo sinuoso della steadycam e la tipica dialettica tra zoom e (apparenti) totali della visione (fascinosa la fotografia di Peter Deming), in un montaggio alternatamente sfrenato e lentissimo. Al solito di straordinaria efficacia l’uso del sonoro, curato dallo stesso Lynch, anche autore di alcune delle musiche aggiunte all’ottima partitura di Angelo Badalamenti, collaboratore di fiducia del regista e parte integrante nella composizione di ogni suo film (qui nel cammeo del boss che risputa il caffè).
Nonostante l’intrigante fattura, le belle attrici e i tanti motivi messi in campo, Mulholland Drive dà spesso l’impressione di girare oziosamente a vuoto, d’attorcigliarsi morbosamente e intellettualisticamente su se stesso, configurandosi come una sorta d’esercizio di stile da parte di un maestro che ripete un po’ stancamente le sue grandi magie cinematografiche.
Tuttavia, pur in un film disuguale che a volte sembra non sapere dove andare a parare, Lynch ci regala alcuni momenti di cinema allo stato più sublime, mostrando che incubo sia diventato il sogno americano.