Per rinnovarsi, il cinema italiano deve affidarsi ancora una volta a due autori della generazione che ha fatto grande il cinema italiano a cavallo degli anni ’50 e ’60: Paolo e Vittorio Taviani.
Grazie a un soggetto di primaria grandezza, Giulio Cesare di Shakespeare, i fratelli Taviani sanno costruire un film grande e potente con i carcerati del braccio speciale del carcere di Rebibbia che mettono in scena il dramma.
La forza espressiva del film è quasi tutta basata sulla prova magistrale di questi carcerati, tutti condannati per reati molto gravi, alcuni di loro sono addirittura ergastolani.
Eppure sanno dare una prova talmente grande e così convincente che solo pochi attori professionisti contemporanei sono in grado di offrire.
Affidandosi a una rigorosa fotografia in bianco e nero e a pochi, ma essenziali, movimenti di macchina, il film è costruito come un work in progress dove la rappresentazione prende forma poco alla volta e dove spesso, pirandellianamente, i personaggi si identificano talmente con il soggetto che stanno rappresentando da non distinguere più la recitazione dalla vita vera e dai relativi drammi personali.
La scena che chiude il film è particolarmente significativa. Gli attori ritornano alle loro celle e alla punizione che finora la società è stata in grado di escogitare per chi ha commesso reati gravi nella vita, cioè la privazione della libertà (da questo punto di vista, l’umanità non ha compiuto nessun progresso dall’inizio della civiltà); e uno di loro dice: “da quando ho scoperto l’arte, questa cella è diventata una prigione”.
Il film ha ricevuto meritatamente l’Orso d’Oro al Festival di Berlino, uno dei più importanti del mondo. Gli stranieri ancora una volta dimostrano la loro maggiore sensibilità per un’opera che, praticamente, in Italia non ha avuto distribuzione.