Soldi. Ce ne sono tanti, dentro e dietro questo film. Una massiccia promozione, campagne pubblicitarie strepitose su riviste, internet, cartelloni: le vetrine di Harrods a Londra hanno scintillato per giorni di quel bagliore di piume e lustrini degli anni ’20, bagliore che non nascondeva alla vista l’affascinante volto di Leo/Gatsby e il caschetto platino di Daisy/Carey Mulligan.
Un film atteso, presentato come un sogno, ad alimentare grandi aspettative perché in esso c’è in ballo tanta roba: F.S. Fitzgerald, il padre della Jazz Age; il Sogno Americano; l’America degli speakeasies, delle flappers, del charleston; quella indimenticabile luce verde al di là della baia che continua a lampeggiare nella nebbia, nelle pagine del romanzo, sullo schermo del cinema, nella proiezione del desiderio di Gatbsy.
Di soldi è pieno anche il film: le feste a casa di Gatsby sono orge di colori e champagne; quella A Little Party Never Killed Nobody di Fergie pompata al massimo volume a bordo piscina è la colonna sonora più adatta a restituire il mondo fatuo, il “circo” degli eccessi che a più di qualche spettatore è parso ridondante, un turbine di immagini e suoni quasi allucinante, ma che perde ogni splendore in confronto alla valle delle ceneri, un posto dimenticato da Dio a pochi km da New York, dove uomini anneriti da polvere e fuliggine sgobbano in montagne di carbone per illuminare la città. In questo il film è riuscito benissimo: la cenere che annerisce i visi degli operai è la stessa che vela gli animi dei protagonisti di questa storia: Daisy, Tom e il mondo a cui appartengono.
Altro elemento vincente del film è Leonardo DiCaprio: se nel 1974 a interpretare l’oggetto del desiderio di Gatsby era una Mia Farrow che più Daisy non si può, qui è DiCaprio il cavallo vincente. Bello da fare paura con qualche ruga in più, bravo e convincente già nella versione doppiata, Gatsby non potrebbe avere altro volto se non il suo.
Peccato però che – almeno nella prima parte del film – perda molto di quell’alone di romanticismo tragico di cui trasuda il personaggio nel romanzo; dispiace perché in qualche modo risulta banalizzato. Recupera il fascino tragico verso il finale, quando davanti a una Daisy imbambolata che non riesce a porre fine a un matrimonio infelice (?), ancora si illude che il suo sogno d’amore possa diventare realtà. La stessa persona a cui Nick – e noi con lui – rivolgerà l’ultimo saluto: “Sono un branco di porci, tu da solo vali più di tutti quanti messi insieme”.
Tanto si è parlato della colonna sonora della pellicola che a molti è parsa eccessiva e fuori contesto per gli anni 20. Al contrario, è senza dubbio spettacolare: aggiunge un tocco di contemporaneità a una storia senza tempo.
In conclusione, fare dei paragoni tra questo film e il romanzo da cui è tratto è disonesto. La pellicola ne esce sconfitta a priori, anche per la discutibilissima scelta – tra le altre ragioni – di dare il via alla storia con un Nick internato in un sanatorio per alcolizzati; nonché per alcune scene da “cartone animato”, come le inquadrature dall’alto sulla villa di Gatsby o gli scorci di New York che sanno molto di videogame. Tuttavia, chi scrive è convinta che Fitzgerald, a differenza di quanto dicono i più, non si rivolterebbe affatto nella tomba. Lui Hollywood l’aveva capita benissimo e questo film è autenticamente hollywoodiano, nel senso che lo scrittore avrebbe dato alla parola. Soldi, soldi, soldi…