La commedia italiana ritorna alle origini.
Quando si rivolge lo sguardo al passato, non bisogna pensare necessariamente di essere dei retrogradi.
Ma il cinema italiano, dai produttori agli autori, dai registi agli sceneggiatori, troppo spesso deve avere avuto questo pensiero negli ultimi anni e il risultato è stato molto negativo. Tranne rarissime eccezioni, si sono prodotte e realizzate soltanto commediole insulse, ripetitive, tutte giocate sui peggiori e più retrivi modelli comici televisivi. Si è pensato per troppo tempo che bastasse scimmiottare i vari Zelig per fare un film di successo.
La scelta compiuta dagli autori di Smetto quando voglio e dal regista esordiente Sidney Sibillia va nella direzione opposta e, con questo film, si è messo il dito nella piaga del principale problema della società italiana di oggi: il lavoro. Ed è riuscita la non facile impresa di restituire con quel tono ironico e leggero (tipico cioè della grande tradizione della commedia all’italiana) l’immagine del nostro Paese al tempo della crisi e del lavoro precario.
E, infatti, il film racconta di un gruppo di emarginati, di reietti, che ai nostri giorni sono principalmente (e paradossalmente) i ricercatori universitari e i laureati (cioè le menti migliori e più brillanti della società italiana), che, per sbarcare il lunario, sono costretti fare i lavori più lontani dalla loro specializzazione (benzinai notturni alle dipendenze di un immigrato cingalese, lavapiatti in un ristorante cinese), senza potersi permettere di fare troppo gli schizzinosi per evitare di restare disoccupati.
Qualcuno di loro è addirittura costretto a fingere di essere un coatto con la quinta elementare perché dire di essere laureati è penalizzante e non permette di trovare nessun tipo di lavoro, nemmeno quelli di più basso livello.
Ma ecco che, proprio come in I soliti ignoti, questo gruppetto di disperati dei nostri giorni decide di agire, cercando di mettere a frutto le proprie conoscenze e formando una sgangherata banda per provare a realizzare il colpo che potrebbe cambiare loro la vita e di farli diventare ricchi. Ovviamente, con queste premesse, l’effetto comico è garantito e, anche attraverso la bravura di un gruppo di attori in stato di grazia (da segnalare tra tutti la performance di Stefano Fresi, lo Zach Galifianakis italiano), Smetto quando voglio si può considerare la migliore commedia italiana dell’anno.
E, soprattutto, dopo molto tempo, con questo film, sono stati recuperati i modelli che hanno fatto grande con Monicelli, Risi, Comencini e Scola, un genere che ha saputo raccontare (probabilmente meglio di qualunque altro) l’Italia del boom e che ha saputo descrivere le contraddizioni di un Paese che lo sviluppo industriale ed economico tumultuoso degli anni '50 ha radicalmente trasformato, portando la società italiana negli anni sessanta e settanta, cioè in un arco di tempo brevissimo, da una società prevalentemente contadina a una post-industriale.