Dopo Io non ho paura Gabriele Salvatores propone un altro film ispirato ad un romanzo di Niccolò Ammaniti. Questa volta una sorta di suo speculare, un suo doppio.
Il giallo dei campi di grano del Sud lascia il posto alla desolazione e al freddo di una piccola cittadina industriale senza nome del Nord Est, che si sviluppa miseramente ai lati di una superstrada. Una cittadina di sassi e ghiaia dove il fumo delle ciminiere si staglia invadente davanti alle montagne: non c'è sole ma un cielo perennemente plumbeo e una storia raccontata tra pioggia e fango. Il cineasta napoletano cambia registro abbandonando completamente il tema della fuga degli esordi e si concentra sul rapporto tra padre e figlio, filo rosso attorno cui la vicenda si snoda e tema già centrale nei due film precedenti : Quo vadis baby?, da cui eredita certe atmosfere cupe e dark, e Io non ho paura, a cui certamente rimanda.

Rino Zena (Filippo Timi), il figlio Cristiano (il bravo Alvaro Caleca) e Quattroformaggi (Elio Germano) sono tre emarginati intrappolati in una società arida e sterile, al grado zero dei rapporti sociali. Le persone che si muovono fuori da questo gruppo sono percepite come una minaccia (si veda la figura dell'assistente sociale) e scatenano ostilità.
Rino Zena è un senza lavoro incattivito che trova nell'ideologia nazista una sorta di senso di appartenenza, Cristiano è il ragazzino diverso, più cupo ed introverso dei suoi spensierati coetanei, Quattroformaggi il matto, "rovinato" da un incidente con i cavi elettrici e declinato in una versione di religiosa pazzia (la convinzione che ogni accadimento quotidiano sia il frutto diretto della mano divina). Tre personaggi per i quali si presagisce un tragico destino. Tre personaggi di una favola nera che si muovono o forse sono mossi su tracciati già scritti, con tanto di (folle) lupo e di Cappuccetto Rosso che si inoltra da sola nel bosco.
E' un film che ha del fiabesco pur rimanendo realistico, presente, nudo e crudo, intervallato da rari momenti di evasione, esclusivamente musicale, in corrispondenza dell'ascolto mediato dalle cuffie di un I-pod di “She's the one” di Robbie Williams.
La denuncia di una società inadeguata e indifferente, il richiamo a certi fatti di cronaca rimangono però solo sullo sfondo.

Ciò che genuinamente emoziona è questo rapporto tra padre e figlio, così sbagliato e così potente. Un rapporto scandagliato nella totale assenza della figura femminile, evaporata senza spiegazioni. Viene messa in risalto la dimensione fisica del sentire, quella a cui socialmente siamo stati abituati a controllare, nascondere, relegare in un angolo.
Un rapporto arcaico e ancestrale giocato sul tatto, a pugni chiusi e denti stretti, a colpi di testate, di abbracci e di baci.
E' moralmente inaccettabile questo padre più figlio del figlio, che nel tentativo dis-educante di iniziare Cristiano alle leggi della vita che conosce -la violenza, la legge del più forte- lo sottopone ad una palestra di sfide e di missioni punitive. Così imperfetto ma così umano. La poesia e la delicatezza con cui vengono sfumati i personaggi convince e suscita la pietas dello spettatore che si immedesima in loro e soffre con loro fino al momento della catarsi, del pianto tra i due, in cui si comprende che qualcosa era sbagliato: la mancanza di fiducia del figlio nei confronti del padre genera una crescita reciproca. Ed ecco un racconto di formazione.
Rimane un delizioso gusto per la forma (la fotografia che dopo tanti minuti passati nel buio e nell'oscurità continua a non stancare lo spettatore) e il gusto cinefilo della citazione.
Come Dio comanda non si potrà definire un capolavoro ma Salvatores ha dimostrato di saper cogliere l'essenza profonda del messaggio di Ammaniti, mettendo in scena un altro film intenso e suggestivo, certamente lontano dai consueti cinepanettoni natalizi.