Gerry, Elephant, e Last Days costituiscono, nella filmografia di Gus Van Sant, la trilogia della morte imminente. Vi si narra il percorso fatale verso il proprio destino. In Gerry (2002), interamente autoprodotto, attraverso la metafora, e lo stilema del viaggio: attesa e speranza di salvezza che si ribaltano in metafisico, silenzioso confronto con il proprio porto di arrivo. Senza che la vera tematica sia questa, quanto piuttosto la sensazione di attesa, l’interregno temporale che occupa il tragitto verso la morte, frammento di vita già condannata. Elephant (2003), palma d’oro a Cannes 2003, ispirato alla strage della Columbine High School, avvicina al parossismo il pedinamento costante dei protagonisti, attraverso lunghi piano sequenza, ripresi da diversi punti di vista, che incrociano nei corridoi della scuola – perfetti cronotopi – i destini di una giornata particolare e terminale. Last Days (2005), descrive gli ultimi giorni di Kurt Kobain, parla della vita come ineluttabile e indecifrabile: tutto è già deciso, e noto, perciò inutile da riproporre sullo schermo – per questo non si spara, e non ci si droga in scena. Al protagonista la pace è negata continuamente, prima del compiersi del destino.
Passando attraverso Paranoid Park (2008), esce adesso nelle nostre sale Milk. Il nuovo lavoro di Van Sant narra la vicenda di Harvey Milk, primo omosessuale dichiarato ad essere stato eletto ad una carica pubblica negli Stati Uniti. Pochi anni, dall’apertura di un negozio di fotografia nel quartiere Castro, a San Francisco, alle prime battaglie, all’elezione nel consiglio dei supervisori della città, fino al 27 novembre 1978, giorno in cui viene ucciso, assieme al suo sindaco, il leggendario George Moscone, dal collega omofobo Dan White.
La tematica della morte imminente percorre l’intera vicenda come una nervatura: il regista rigetta fin dall’inizio la suspence, o comunque la possibilità di stupire lo spettatore attraverso un finale imprevisto ed inatteso. Il film inizia con l’esibizione della morte del protagonista attraverso il mondo massmediologico. Come a fare una dichiarazione programmatica di intenti: non l’interesse verso la morte, ma del tragitto fino alla morte. A questo proposito, il vero espediente narrativo innovativo è la registrazione audio che Harvey Milk fa della propria vicenda poco prima di morire. Il regista segue il racconto, che richiama un passato non troppo lontano, percorso secondo una cronologia abbastanza lineare. Ma – e qui sta la scelta innovativa – mostra anche il momento del farsi della narrazione, l’attimo in cui cioè Milk registra, seduto ad un tavolo, le proprie memorie. Che si pone in un altro tempo, poco prima della morte. Un istante prima dell’ultimo istante. E dunque, se nei film precedenti la ripetizione degli eventi, riproposti secondo angolature diverse, ne dichiarava l’impossibilità interpretativa, adesso questa funzione è delegata al racconto audio: nuovo doppio, meno oggettivo, perché creato dal soggetto protagonista del film, del reale. In un film che del reale sceglie di mostrare anche la terza faccia, quella anonima del mezzo televisivo.
Van Sant adotta la strada della sobrietà: il ritratto è intenso perché scarno, privato: per usare una metafora musicale, da camera e non melodrammatico. Perché la vita vera è così, e solo l’arte ha il dono di potere usare il registro a tinte forti del melodramma: ecco allora Puccini, la Tosca, la morte in scena, drammatizzata, sottolineata nella recitazione, nel pieno orchestrale. Morte che si guarda, morte che il protagonista guarda in un teatro. Ma morte ripetuta, identica a se stessa in ogni rappresentazione, perché fittizia. Al contrario del cinema, di questo cinema, più che mai Morte al lavoro, più che mai pudica rappresentazione quasi fuori scena, quasi oltre i margini dello schermo. Non per rispetto, ma perché reale, perché dunque irripetibile: perché se si può recitare la vita, vivendo, non si può recitare la morte, continuando a vivere. Ed allora il duplice omicidio finale è una serie di spari, un corpo che cade a terra, dopo avere pronunciato un “no”. Senza sangue, senza urla. Verrebbe da dire, senza violenza. Perché ineluttabile, perché al destino che bussa alla porta – le tre note dell’incipit della V Sinfonia di Beethoven – nessuno sfugge. Come non sfuggivano le giovani vittime di Elephant, fin dall’inizio pedinate dalla macchina da presa in piano sequenza. Cinema come rappresentazione del destino. Macchina da presa come impersonificazione del fato.
Qua non c’è lo stesso uso totale del piano sequenza visto nei lavori precedenti: si usa il ralenti, lo split screen, la sapiente miscela di finzione e materiale di repertorio. Ma l’intento è quantomeno identico. Aggiungendovi, però, la rappresentazione di un personaggio che, per molti versi, è l’alter ego del regista, al crocevia tra Hollywood ed il cinema sovversivo, ed indipendente. Imprevedibile, incapace di seguire strade già battute, o prefissate. A metà strada tra il visionario (si pensi, in Milk, alle scene di festa, dopo l’elezione) ed il documentaristico. Un cinema di ricerca, come quella di Harvey Milk è stata una vicenda di ricerca: delle proprie volontà, delle proprie convinzioni, dei propri padri. Come il regista, passato attraverso il realismo pasoliniano e l’omaggio ad Hitchcock in Psycho (1998), clone totale, copia a colori del modello originale, dunque operazione altra rispetto ad un remake.
Un breve accenno alla colonna sonora: colpisce Bach, colpisce quella till victory urlata da un’altra sacerdotessa della ricerca e della libertà, Patti Smith.
Si vive e si muore per una medesima ragione: la ricerca di sé. Attraverso gli altri.