Di fronte a 8 ½ di F. Fellini è doveroso chiedersi che bisogno ci sia di essere scambiati per il critico lisergico e logorroico della pellicola. Ma se corriamo volentieri questo rischio è perché siamo convinti che uno dei temi del film sia proprio la sua eroica (e metafisica) impresa: la traduzione dell’immagine in linguaggio. Compito che si prefigge anche il regista, ma da un punto di partenza specularmente opposto, dovendo, dal linguaggio, estrarre immagini.
L’empasse del regista-protagonista (M. Mastroianni) consiste allora nell’incapacità di verbalizzare il suo ultimo film proprio mentre questo gli scorre in la testa, come un caleido(strobo)scopico flusso di coscienza. É questo vortice che Fellini imprime sulla pellicola, come in una presa diretta, telepatica, tra sé, la coscienza di Mastroianni e la pellicola dei film(s). Il suo e quello di Mastroianni, appunto, sciamano cinematografico che riproduce le visioni del primo e sincronicamente cerca di verbalizzare le proprie – tra le quali un’improbabile scena con astronavi megagalattiche in decollo. Senza sapere che i film(s) coincidono, e i flussi di coscienza del protagonista sono geneticamente le immagini di un film, quello di Fellini. Il film di Mastroianni rimane incompiuto perché non ce n’è più bisogno; o meglio, è appena finito.
Il mago, allora, tra tutte le fantasmagorie che abitano la stazione termale nella quale il regista cerca uno sbocco linguistico alle proprie visioni, è solo la soubrette più iconica del (sur)realismo magico di cui è intrisa la pellicola. Lo stato lucidamente alterato di un regista in crisi, alle prese con le allucinazioni del proprio quotidiano, è il punto di vista che ci si offre per una riflessione sulla creatività della memoria, che non si limita a conservare il reale ma anzi, continuamente, lo ricrea, rendendocelo vivibile.
L’osmosi tra il reale e l’immaginario si mostra nell’invisibile batter d’occhi tra i momenti di veggenza e la circense realtà termale, che ne annulla la reciproca autonomia trasformandoli in cristalli di tempo, come accade durante la visione dei provini, nella quale gli aspiranti attori del film si specchiano nei compagni di vita del regista.
L’operazione del critico, allora, non pecca certo di vanità ma, al contrario, di troppo zelo, perché si affida alla rigida discretezza del linguaggio per affrontare la continuità dell’immagine e della creazione. In fondo, il lavoro del critico si colloca agli antipodi di quello del regista, che di mestiere riporta il linguaggio all’immagine.
Il cortocircuito tra visione e immaginazione è, così, la voyance di Mastroianni impressa sulla pellicola di Fellini, e la genesi dell’opera è sincrona alla sua realizzazione, come in Epidemic di L. Von Trier, o in Fountain di M. Duchamp. Il regista fa psicanalisi al rovescio, perché dalla realtà dell’immagine anticipa la surcodificazione della lingua, come quando il mago vede l’incomprensibile e alinguistico asanisimasa di Marcello, denso come il calco di un sogno.
Fare un film è una ricerca per sognatori (come mi ha detto un trans incontrato per caso sul bordo di una strada).