Fin dagli anni Cinquanta (e da Kracauer che, nel suo From Caligari to Hitler, individuava nel film di Wiene del 1920 i germi che avrebbero portato la Germania all’oscuro periodo del nazismo) si è sviluppata un’ampia serie di analisi che, solitamente a posteriori, tendono a vedere in un certo genere, nella filmografia di un certo regista o addirittura nel cinema più in generale lo specchio della società che costituisce il loro retroterra. Anche se ovviamente non è l’unico aspetto da considerare, è palese che il cinema, in quanto prodotto di massa, debba mantenersi al passo con i cambiamenti del gruppo sociale che costituisce il suo pubblico: in caso contrario risulterebbe irrimediabilmente datato, perdendo così i favori degli spettatori.
In realtà il film in sé è solo una piccola parte del fenomeno cinematografico: esso è un prodotto allo stesso tempo artistico e commerciale, che perde la sua ragione d’essere se nessuno spettatore si dispone a fruirlo. Parte indispensabile della macchina produttiva cinematografica è quindi quella volta ad attirare il pubblico nelle sale, a stuzzicarne la curiosità, a convincerlo che, pagando il biglietto, potrà soddisfarsi vedendo sullo schermo le situazioni che desidera vedere e provando le emozioni che si aspetta di provare: in poche parole, tutto il battage pubblicitario legato alla promozione di un film. Oggi siamo letteralmente circondati dalla pubblicità cinematografica (come, d’altronde, dalla pubblicità di qualsiasi genere di prodotto): trailer in sala, trailer in televisione, enormi locandine ai lati delle strade, siti Internet creati ad hoc per pubblicizzare un certo film, ma anche più generici, attraverso quali informarci a proposito dei film di prossima uscita, merchandising.
Bisogna però tenere bene a mente che, fino alla fine degli anni Settanta, la strategia pubblicitaria cinematografica era basata su strumenti differenti. Innanzitutto i trailer non venivano trasmessi in televisione, ma prima della proiezione: ciò ovviamente implicava essere già al cinema.
Mancando, almeno parzialmente, questo strumento fondamentale, venivano allora sfruttati maggiormente tutti quei materiali cartacei che potevano pubblicizzare il film anche al di fuori delle sale: manifesti, locandine e fotobuste (una serie di fotografie di scena del lungometraggio) avevano molta importanza e dovevano essere attentamente studiati al fine di incuriosire lo spettatore e attirarlo in sala. Bisogna inoltre sottolineare che, almeno fino alla metà degli anni Sessanta, manifesti e locandine erano per la stragrande maggioranza pittorici, e non fotografici come è d’abitudine oggi: un gruppo abbastanza stabile di cartellonisti lavorava a servizio delle case di produzione realizzando il materiale pubblicitario per i film in uscita. Questo ovviamente comportava una maggiore artisticità di questo strumento commerciale e, contemporaneamente, una maggiore richiesta di inventiva nell’individuare gli elementi da rappresentare, gli elementi che avrebbero attirato il pubblico in sala.
Ma se, come abbiamo detto, il cinema riflette lo stato, l’evoluzione e le contraddizioni di una certa società, si può dire lo stesso di questi materiali pubblicitari, soprattutto di quelli pittorici che condividono con i film la natura ambigua di prodotto commerciale e opera d’arte? Sì e no.
E’ infatti oggettivo che manifesti e locandine svolgono una funzione preliminare e necessaria rispetto al film: quest’ultimo ha maggior libertà d’azione perché, quando inizia la proiezione, lo spettatore è già in sala, ha già pagato il biglietto, soddisfacendo così l’obiettivo primario di quella macchina commerciale che è l’industria cinematografica. Il regista quindi si può permettere di raffigurare i cambiamenti in atto nella società in modo più svincolato, spingendosi anche in rappresentazioni che rischino di non incontrare completamente i favori del pubblico. Il cartellonista non gode di questa libertà: il suo compito è selezionare e rappresentare quegli elementi che convincano lo spettatore a recarsi alla proiezione.
Per chiarire meglio questo concetto conviene proporre un esempio. Scegliamo un periodo di forte evoluzione sociale: gli anni Cinquanta e Sessanta, quando l’Italia, superati gli orrori della Seconda Guerra Mondiale, si avvia verso una lenta ma costante ripresa, verso un nuovo benessere, verso nuovi ideali. Prendiamo una categoria sociale che mai, come in questo periodo, ha conosciuto uno sviluppo così impetuoso: le donne, che dopo aver messo alla prova le loro capacità durante il conflitto, quando erano state chiamate a sostituire gli uomini arruolati nel loro ruolo di capofamiglia, iniziano a lavorare fuori casa e a chiedere il riconoscimento dei loro diritti sociali.
La cartellonistica cinematografica di questi anni vede irrompere prepotentemente la figura femminile, ma curiosamente in un modo che non ne rispecchia la reale evoluzione: è il corpo della donna che viene usato come strumento attrattivo, la sua sensualità e la sua procacità, non la sua emancipazione. Se anche il cinema in generale riflette questo andamento (pensiamo alla Commedia all’Italiana e alla sua diva per eccellenza, la formosa Sophia Loren), trovano comunque spazio cineasti molto più attenti alla reale evoluzione della donna, al periodo di grandi cambiamenti per l’universo femminile. Uno su tutti: Antonio Pietrangeli, regista prematuramente scomparso e ingiustamente dimenticato.
La sua pur breve filmografia mostra osservazioni incredibilmente attente e realistiche sulla situazione femminile, seppur sempre inserite con incredibile maestria nella cornice scanzonata di quel macrogenere che è la Commedia all’Italiana. Per dimostrare la dissonanza tra reale situazione sociale, film e immagini pubblicitarie cinematografiche è allora utile servirsi del suo secondo lungometraggio, Lo scapolo (1955), in cui l’impenitente celibe Paolo Anselmi (un giovane Alberto Sordi) viene colto dal desiderio di una compagna con cui condividere la vita (o meglio, come sottolinea ironicamente il regista per bocca del protagonista, di una domestica tuttofare), decidendo così di mettere alla prova varie candidate. Tutte le figure che ruotano attorno al personaggio principale sono lo specchio della “nuova donna” del periodo: lavorano, sono indipendenti, desiderano un marito non per attenersi al ruolo che è prefissato per loro, quello di mogli e madri, ma per essere amate. Ebbene, il manifesto pubblicitario del film è una vera sorpresa: Alberto Sordi è raffigurato fieramente sprezzante, circondato da un gruppo di procaci (e supplici) figure femminili, quasi delle pin-up, che non esistono assolutamente nel film. Lo spettatore, vedendo questo manifesto, probabilmente si sarebbe aspettato di vedere il protagonista assediato dalle avances di donne sensuali, pronte a fare di tutto per conquistare l’amore del protagonista.
Niente di più diverso dalla storia raccontata da Pietrangeli: le donne che Sordi passa al vaglio vengono scartate proprio perché non nascondono nulla di loro stesse al fine di conquistare il bel Paolo, rivelando così dei difetti maschilmente inaccettabili. Cosa ci dice questo? Che l’emancipazione femminile era tollerata da una società di stampo ancora fortemente maschilista, ma certo non favorevolmente accettata: per catturare l’interesse del possibile spettatore pagante era molto più efficace sfruttare la corporeità delle donne, non i simboli dell’inedita indipendenza da loro progressivamente conquistata.
Questo esempio, ma se ne potrebbero fare molti altri, mostra come anche le immagini pubblicitarie cinematografiche abbiano la loro importanza nell’analisi di un periodo storico e sociale. Ed è un peccato che la conservazione di questi reperti di interesse storico e sociale sia affidata solo alla passione e all’abilità di alcuni tenaci collezionisti (tra cui Maurizio Baroni, senza la cui opera probabilmente quasi nessuna analisi come questa sarebbe possibile).