A cinquant'anni dalla realizzazione del capolavoro di Federico Fellini, il Museo Nazionale del Cinema presenta alla Mole Antonelliana la mostra Gli anni della Dolce vita, Fotografie di Marcello Geppetti e Arturo Zavattini, allestita fino al 21 marzo.

A cinquant'anni dalla realizzazione del capolavoro di Fellini, la mostra ricostruisce il clima della Dolce Vita grazie alle immagini di Geppetti, restituendoci una testimonianza preziosa di un film e di un'epoca per molti versi memorabili. A completamento del percorso una selezione di ritratti dei protagonisti, "rubati" nei momenti di pausa sul set de La Dolce Vita dall'operatore Arturo Zavattini.

La mostra - in tutto oltre 160 immagini di grande formato - rende omaggio al film di Federico Fellini e, nello stesso tempo, ricostruisce il clima della dolce vita romana alla fine degli anni '50, gli stessi che servirono di ispirazione al regista riminese.
Autore di questi scatti è Marcello Geppetti, un "paparazzo" che inizia la sua carriera di reporter fotografico nell’agenzia di fotogiornalismo Meldoni-Canestrelli-Bozer nel 1959, ritraendo in forma dinamica momenti della vita privata di personalità del mondo del cinema, spettacolo, cultura, sport, politica.
A poco più di venti anni di età, insieme a un piccolo gruppo di giovani fotografi, Geppetti si trova a scrivere una nuova storia della fotografia, costellata di “stelle“, “dive” e di tutto il “glamour” che ha caratterizzato un’epoca.

“Quella della Dolce vita" - ricorda Alberto Barbera direttore del Museo Nazionale del Cinema - "è una storia che è stata scritta e riscritta una infinità di volte. E allora, come annota il compianto Tullio Kezich in uno dei suoi ultimi scritti, come ricordare (il film) con qualcosa che non sia già stato detto, visto e stampato? Noi ci proviamo, perché a 40 anni dalla “prima”, tenutasi a Milano il 5 febbraio 1960 – non senza contestazioni, anche violente - di quel film non ci si può proprio dimenticare. E non soltanto perché è uno dei film più giustamente celebrati del suo autore, ma perché è uno dei pochi lavori per il cinema che siano assurti a metafora di un momento storico determinato, cartina di tornasole di una condizione etica prima ancora che epocale, rappresentazione insuperata dell’Italia e degli italiani alla vigilia del grande boom, del quale seppe non solo pronosticare l’avvento ma la fine stessa, inscritta nel dna di una società malata, in quanto priva di anticorpi e moralmente fragile”.