''Io penso che la gente crede che noi ci vestiamo da donna per fare marchette, che a noi piace così, non immaginano che io per lavorare normalmente devo travestirmi da uomo, quello si che per me è un travestimento.” (Porpora Marcasciano, 2002)

Devo essere sincera: dopo la discussione della tesi lo scorso luglio, il mio interesse nei confronti del transessualismo è andato calando ma non sicuramente la voglia di confrontarmi con questa tematica, cosa che sto facendo con questo articolo.
Molti considerano i transessuali individui perversi, malati, che non si accontentano della propria condizione e che, chissà per quale motivo, decidono di “farsi fare” una vagina o un pene ex novo…forse per accompagnare qualche perversa fantasia!
In realtà pochi si interrogano sulla condizione psico-emotiva nella quale queste persone si trovano a vivere fin dalla nascita: il sentire nel profondo di se stessi di essere donne e uomini, ma di essere rinchiusi in un corpo che non gli appartiene, che non sentono come proprio e verso il quale provano ribrezzo. Fin da quando scoprono questa ingiustizia la loro vita è spesso accompagnata dalla sofferenza di non avere un corpo adatto al proprio vissuto interiore, di essere considerati sbagliati dagli altri e, per questo, costretti a fare scelte di vita diverse da quelle che invece sognano; molti arrivano solo in tarda età alla decisione di intraprendere questo difficile percorso, dopo aver cercato di vivere una vita come persone “normali”.
Qualche settimana fa mi sono imbattuta in “Transamerica” (D. Tucker, 2005) interpretato da una brava Felicity Huffman (la Lynette Scavo di Desperate Housewives, per intenderci!) nel ruolo della transessuale Bree la quale, a pochi giorni dall’intervento di Riattribuzione Chirurgica di Sesso, scopre di avere un figlio, Toby, concepito quando era ancora un uomo e si trova a dover fare i conti con le proprie responsabilità di padre. Insieme intraprendono un viaggio che da New York li porterà a Los Angeles, uno alla ricerca di fortuna e con il sogno di sfondare nell’industria cinematografica, l’altra con il sogno di riprendersi la propria femminilità negata.
Sono rimasta piacevolmente stupita del modo delicato, a volte ironico, molto più spesso amaro con il quale il regista ha scelto di trattare questa tematica, l’ho trovato scevro da stereotipie e da pregiudizi, si riscontra solo la voglia di raccontare una storia e i sentimenti che la caratterizzano, nella maniera più reale possibile.
Sono diversi gli spunti di riflessione forniti dal film. Bree, all’inizio della pellicola e per quasi tutta la sua durata, ha una femminilità grezza, artefatta, esasperata come solo i trans riescono a fare: il colore caratteristico degli abiti è il rosa quasi a volere imporre a tutti i costi il ruolo della donna che sente di essere e di dover convincere di questo il mondo esterno. I suoi atteggiamenti sono spesso rigidi, impostati, rispecchiano l’educazione ricevuta dai genitori e vi è una forte identificazione con la propria madre, unico esempio di femminilità al quale poteva ispirarsi. Ma ecco che alla fine del film la situazione cambia: Bree, dopo l’intervento, ha acquisito naturalezza, armonia nell’espressione corporea e consapevolezza di se stessa e del suo essere femmina; ora è una DONNA, libera di esprimersi senza paura e libera soprattutto di crescere.
Ogni persona ha una propria individualità ed è impossibile effettuare delle generalizzazioni, ma nell’utenza trasessuale si riscontra una tendenza in seguito all’intervento, a recidere ogni legame possibile con la precedente vita da donna o da uomo. Le motivazioni che sottendono a questo comportamento possono essere molteplici, prima fra tutte la voglia di lasciarsi alle spalle anni di sofferenza e di mancata accettazione da parte della società, del proprio microsistema, la famiglia, e dedicarsi unicamente alla cura di sé; nel caso della protagonista questa necessità di lasciarsi tutto alle spalle si esplica in una sorta di egoismo e di scarico di responsabilità quasi adolescenziale. Al momento della presa di coscienza dell’esistenza di un figlio, Bree è sgomenta perché questo potrebbe rappresentare un rallentamento, se non un vero e proprio intoppo, nella persecuzione del proprio obiettivo; l’analista si rifiuta di acconsentire all’intervento fino a quando non avrà affrontato la situazione:
"Bree, questa è una parte del tuo corpo che non puoi buttare via! Io non voglio che affronti questa metamorfosi per poi scoprire che sei ancora incompleta".
C’è anche una tendenza nell’eloquio a parlare del proprio sé maschile in terza persona, come se parlasse di qualcun altro e non di sé stessa; il figlio sembra non rappresenti un problema per la vita di Bree ma per quella di Stanley, l’uomo che è stata :
"Niente potrà impedirmi di entrare in ospedale la prossima settimana, non mi farò ritrascinare nella vecchia vita di Stanley".
Infine è affrontato il tema del rapporto con la famiglia d’origine: conflittuale, caratterizzato da schemi comportamentali estremamente rigidi, dove ogni “attore” resta ancorato ai propri ruoli e il dialogo risulta impossibile laddove non si sviluppi la capacità di ascoltarsi e comprendersi.
La madre di Bree è una donna protettiva, con una personalità decisa e appariscente e un modo di fare da matrona. Si è impegnata perché la sua fosse una famiglia perfetta ma i risultati sono stati opposti: un marito sottomesso, che pensa solo al sesso e che non è stato in grado di permettere al figlio maschio una corretta identificazione con la mascolinità che rappresenta; un cane “maniaco sessuale” che passa il tempo a leccarsi i genitali; una figlia alcolista in fase di recupero, invidiosa delle attenzioni conferite da sempre al fratello (Stanley/Bree) ma che nonostante questo, nei pochi momenti di intimità passati insieme a lui, riesce a costruire un legame forte basato sulla complicità femminile, aiutandolo a scegliere l’abito per la cena:
"Guardate il ritorno del figliol prodigo…è che mi sembra così strano, vedo ancora Stanley in te, ma è come se lo avessi passato in un colino per eliminare la polpa maschile.[…] Da piccola credevo che fossi tu quello fortunato…provati questo!".
La donna fa di tutto perché il cordone ombelicale che la lega così fortemente a Stanley non si recida, lui deve continuare ad essere una parte di lei, quasi avesse bisogno della mascolinità del figlio per sentirsi completa. Emblematica è la scena del ristorante quando la madre pretende che Bree si comporti come un “gentiluomo” e che le scosti la sedia per farla accomodare, mettendola in un profondo imbarazzo.
In conclusione cosa dire…il transessualismo è un disturbo, una condizione complessa ed estremamente delicata da trattare, ma spero con questo articolo di essere riuscita a suscitare curiosità nel lettore. Per avvicinarsi ancora di più alla tematica esistono tanti film come “Priscilla la regina del deserto” (1994), “Stonewall” (1995), “La mia vita in rosa” (1998), “Boys don’t cry” (1999) e, per finire, “Le fate ignoranti” (2001).
Che dire…Buona visione!