''What sphinx of cement and aluminium bashed open their skulls and ate up their brains and imagination?''. Allen Ginsberg, Howl

Inferno (1980) è l'opera attraverso la quale Dario Argento porta a maturazione e compimento il discorso intrapreso con Suspiria. Questo rende il film qualcosa di molto diverso da un seguito: si compie infatti una disamina dell'origine stessa del Male, fulcro dell'intera filmografia del regista. Per questo i luoghi ed i personaggi descritti dai due film sono totalmente diversi (con il caso particolare di una stessa attrice, Alida Valli, presente in entrambi), e niente ci vieta di supporre le vicende di Suspiria contemporanee a quelle di Inferno. Ed il tentativo di scandaglio dell'universo maligno non solo offre a posteriori una lettura interpretativa della tregenda stregonesca al centro del precedente film, ma offre più di un motivo di interpretazione dell'intero corpus filmografico dell'autore. Un vasto progetto, dunque, suddiviso in due capitoli indipendenti eppure di imprescindibile interrelazione: l'incendio finale, dal quale Mark riesce a sfuggire, non è solo la voluta duplicazione del finale di Suspiria, ma anche, e soprattutto, l'epilogo di entrambi i film: e loro nomen-omen, visto che la fiamma suggerisce l'inferno. Ed è importante ricordare che la vicenda è ancora orfana di un terzo capitolo, Terza Madre, in testa ai progetti futuri del regista, e che avrà il compito di illustrare i fatti ambientati a Roma, solo tratteggiati da Inferno.

Risulta evidente la fitta ragnatela di relazioni che lega Suspiria ad Inferno. Ed (anche) se è ipotizzabile che Argento abbia ideato il primo film senza la precisa idea di un nuovo capitolo, è altresì estremamente interessante, forse proprio in virtù di questo, il fatto che il regista postdati il momento della spiegazione, ovvero: Suspiria narrava una storia bene o male circoscritta entro i limiti stessi della vicenda descritta; Inferno invece annovera Friburgo, con New York e Roma, nell'insieme delle dimore scelte dalle Tre Madri come loro sede. Tre Madri: ovvero una trinità rovesciata, un Padre - Figlio - Spirito Santo ribaltati in Sospiri - Lacrime - Tenebre. Laddove all'alto dei cieli del Divino si contrappone il movimento verso il basso del Maligno. Suspiria ed Inferno sono i film della caduta, imitazione della Caduta Prima, quella di Lucifero sulla terra. Osservavamo (cfr. Principi di innovazione in Suspiria di Dario Argento) come la struttura stessa di Suspiria, al livello del Filmico e del Profilmico, si orizzonti verso il basso: Inferno accentua, se possibile, tale movimento, ad ogni livello. Da quello verbale - ''La terza chiave è sotto la suola delle tue scarpe'' recita il libro di Varelli più volte citato, e sarà proprio la caduta delle chiavi in una cisterna d'acqua a costringere Rose all'immersione; a quello propriamente connesso con le azioni: Rose scende giù, in un tombino, poi ancora sotto, in una stanza misteriosamente sommersa dall'acqua: chiaro riferimento, questo, ad un ''giù'' che attiva un movimento temporale inverso: Rose perviene ad uno stadio prenatale, la stanza sommersa come alter del liquido amniotico. L'Acqua scende ed inghiotte, come il Tempo: al centro di Inferno un black hole inedito, ed estremamente pericoloso. Lo osserviamo anche durante la fuga di Sara dalla biblioteca: l'antro oscuro dove entra è fuori dal tempo del film, e crea il sospetto di una deviazione temporale. E così, quando Mark dovrà trovare la chiave, e dunque scoprire la tremenda verità, sarà scendendo giù, sotto il pavimento, che riuscirà a farlo. E sarà ancora, come per l'iris di Suspiria, un segreto non celato, visto che il sotto è da sempre il regno incontrastato della morte, dell'orrore, di ciò che - ed è evidente la suggestione de Il Perturbante di Freud, alla base di un capolavoro dell'Horror uscito lo stesso anno, The Shining di Stanley Kubrick - deve rimanere nascosto, e che invece irrompe fuori con tutta la sua potenza. Specialmente adesso che è l'Assassina per antonomasia, la Morte stessa, a rivelarsi, sotto le spoglie di una dispotica infermiera, custode diabolica del paralitico Varelli: ''La morte si sconta vivendo''.
Dei sottili legami che specularizzano i due film già si è detto, come della totale dispersione della trama messa in atto. Si tratta adesso di descrivere l'ambiente messo in scena dal regista: Roma, certo, ma soprattutto New York. Questo perché, come abbiamo già detto, Argento non ha ancora realizzato Terza Madre, il terzo capitolo della vicenda, appunto ambientata a Roma. E comunque sarà Tenebre (1982), il film successivo, a fare i conti con la città del regista. New York è evocata come una big apple malata, forse marcia, e certo non usuale. Il gusto per il decor porta Argento, dopo le tinte rossoverdeblu di Friburgo, ad una accentuazione coloristica, che inventa una città nuova e variopinta. Cedendo, forse è giusto, a ''visioni warholiane'' e ad atmosfere da clip. Ma senza che queste risultino mai fine a se stesse: tutto è al servizio del senso di angoscia ed attesa che il film crea. E ciò che Inferno aggiunge, è una maggiore fantasia nella reinvenzione degli esterni: facciate di palazzi, fogne invase da acque impazzite e topi, tutto è animato da luci che evidenziano dettagli imprevisti. A tutto questo si lega un gusto per il Metafisico: alle misteriosi torri di De Chirico si sostituiscono i grattacieli. La New York di Argento è in attesa continua di un accadimento imminente: l'eclissi di luna prelude al precipitare degli eventi. La costruzione delle inquadrature, i movimenti stessi della macchina da presa, contribuiscono notevolmente alla creazione di questa sensazione di attesa: le inquadrature si presentano talvolta vuote, e come in un film di Ozu, illustrano un ambiente prima o dopo un'azione. Argento ripete l'utilizzo di posizioni impossibili della macchina da presa, e di dettagli macroscopici di animali orrendi, o di serrature che si chiudono. Da ricordare il primissimo piano del pomello in vetro della maniglia, caduto a terra perché rotto, che riflette l'ombra dell'assassino: inquadratura eccezionale, perché cita la sequenza iniziale di Citizien Kane di Orson Welles, la rottura della palla di vetro. E soprattutto perché spiazza lo spettatore creando un'illusione circa le reali dimensioni delle cose inquadrate. Viene in mente Porta chiusa di Sartre, la claustrofobica sensazione di un mondo - prigione nel quale gli uomini sono rinchiusi inconsapevolmente: un terrario di dimensioni incerte, attraverso il quale un Essere diabolico osserva gli uomini.

L'uso sonoro è eccezionale. Si nota intanto l'assenza di un leit motiv reiterato, cifra stilistica dei due precedenti film, che fin da subito, e poi negli anni, sono venuti ad identificarsi con determinate melodie: basti pensare al fortunatissimo pezzo composto dai Goblin per Profondo Rosso. In Inferno Argento sperimenta le più diverse soluzioni musicali: c'è l'uso sonoro assordante, che copre parti di dialogo. Ma anche una inaspettata apertura sinfonica e classicista, sia nel brano di Keith Emerson, interessante operazione di contaminazione tra rock e musica classica: lo udiamo durante la discesa di Mark verso la dimora di Varelli, nel prefinale del film. Va ricordata in questo contesto la scena durante la quale Argento dà una rappresentazione visiva di un suono: quando mostra le tubature misteriose che collegano le stanze del palazzo costruito da Varelli ''catturare'' le parole pronunciate da Mark ed Elise, e la macchina da presa imita nei suoi movimenti il procedere delle onde sonore.
L'apertura sinfonica sopra descritta è evidente nell'adozione del Va' pensiero, dal Nabucco di Giuseppe Verdi. Troviamo il brano in due sequenze, entrambe di estrema tensione, ed ambientate a Roma. Opera (1987) svolgerà in un teatro d'opera, durante la rappresentazione del Macbeth di Verdi, le tragiche vicende narrate: ed in nuce queste due sequenze già lo comprendono.
E' importante ricordare che in entrambe il brano è diegetico ed onscreen, perché realmente ascoltato dai protagonisti: nella prima Mark legge la lettera della sorella nell'auditorium dell'università, dove il professore fa ascoltare proprio quel brano. Una misteriosa figura femminile, con un gatto tra le braccia, appare, si aprono finestre ed il vento soffia: le ali dorate sono percorse dal pensiero e da un vento di presagio e di attesa. Ed è importante annotare come questa scena tenda un ponte stilistico verso la scena della morte di Daniel in Suspiria: in entrambe la macchina da presa compie un volo sopra le teste dei personaggi ad imitare il vento, il soffio maligno che invade gli ambienti descritti. Così, nella sequenza successiva, Sara mette il brano sul giradischi, a casa propria, mentre Carlo, un vicino di casa, è con lei. Il suo errore è sfidare la morte, è diabolico persistere nell'errore di ascoltare un brano che gli eventi hanno mutato di senso e valore: i due saranno uccisi a coltellate, Carlo avrà il collo trapassato dalla lama, come ad impedirgli di cantare la famosa pagina musicale. L'assassino, compiaciuto dietro ad una tenda, avrà anche l'accorgimento di seguire il ritmo del brano nello sfilare la lama dal collo di Carlo, per colpire Sara alla schiena. Questa sequenza è tra l'altro esemplare circa l'uso del colpo di scena: il regista si diverte a dilatare i tempi di attesa fino al limite di rottura, e sposta gli eventi, che non accadono più quando ce lo aspetteremmo. Ad esempio Carlo è colpito a morte non durante il momento di silenzio, ma dopo aver riallacciato la luce, ovvero dopo il nostro sospiro di sollievo. Ed è di nuovo coraggiosa ed innovativa la scelta di mostrare il duplice omicidio in piena luce, dopo tanto buio. Allo stesso modo la morte di Kazanian, divorato dai topi, termina con un falso tentativo di salvataggio: l'arrivo frettoloso dell'uomo del chiosco illude lo spettatore: sarà lui a decapitare il povero antiquario con un coltellaccio. Argento ottiene, come osserva Pugliese, un'insolita prossimità tra orrido e gag: la morte, come la gag, è imprevedibile ed assurda. La sequenza appena citata è esemplare e sintomatica di una rappresentazione sovversiva: le regole cadono, e con loro le spiegazioni. Un unico cerchio di morte rinchiude i personaggi del film.

Inferno è anche, e più di Suspiria, un film sul cinema: il corpo straziato di Eleonora Giorgi che lacera un panno teso, schermo e sottile velo dell'inquadratura, davanti allo sguardo attonito di Mark, che coincide con il nostro, diviene la metafora più attenta ed importante intorno allo stato di fiction del cinema di Argento. Si lacera lo schermo, si oltrepassa il mezzo di supporto, che permette la visione, e si procede nel mondo. Il movimento illustrato da Argento è quello che penetra il nostro cervello attraverso gli occhi: seguiranno, sette anni dopo, spilli a trattenere forzatamente aperti gli occhi: il bisogno di guardare che avevamo rintracciato in Suspiria è sostituito dalla costrizione dello sguardo ed allo sguardo. Inferno è una sagra di morte, perché alla visione del male non si può scampare: tutti i personaggi, tranne Mark, investito del ruolo di risolutore del mistero suo malgrado, sono presentati nel tragico ultimo atto della loro vita: in procinto di morire. Anzi, alcuni proprio per morire, come Carlo, che acquista un proprio ruolo solo nella violenta morte. Cozzi osserva che i personaggi ''non hanno tempo di diventare reali'': in verità, assurgono al grado di realtà proprio grazie alla loro morte. Si muore perché vittime della propria curiosità (Rose, Sara); perché invidiosi e ladri (Carol e John). E sbuca un nuovo gusto per il contrappasso, in morti che imitano la vita e le ossessioni avute in questa: è ancora esemplare la morte di Kazanian, ucciso durante il tentativo di uccisione degli odiati gatti, ma anche quella di Varelli, strozzato dal proprio laringofono. Tutto in una atmosfera di presagio che mozza il fiato e spezza le rare oasi di tranquillità: Sara si ferisce un dito durante la fuga dalla biblioteca, e la goccia di sangue che osserva sul polpastrello, prima di toglierla via, è un chiaro segno di imminente morte.