Con La nobildonna e il duca (L’Anglaise et le Duc, 2001) Eric Rohmer dipinge un mirabile affresco della Rivoluzione francese. Il film è tratto da un libro di memorie di Grace Dalrymple Elliott, Journal of My Life During the French Revolution (1803, pubblicato postumo nel 1859, tradotto in italiano da Fazi con lo stesso titolo del film).
È il diario di un’aristocratica inglese che decide di trasferirsi a Parigi nel momento più sbagliato, alla vigilia della presa della Bastiglia. La vita della Elliott era stata avventurosa come quella di un’eroina da romanzo: sposata con un nobile inglese, divorziò per diventare l’amante del principe di Galles (il futuro re Giorgio V) ed ebbe da lui una figlia. Terminata questa relazione, fu legata da un’intensa passione a Luigi Filippo d’Orléans, (detto Philippe “Egalité” per le sue simpatie rivoluzionarie) che le rimase sempre un fedele amico negli anni parigini.
L’aristocratica Elliott, amica della regina Maria Antonietta, rimase inevitabilmente sconvolta dai tumulti popolari e dal periodo di violenti rivolgimenti politici che seguirono la presa della Bastiglia. Sul suo diario ne appuntò la cronaca scarna e i riflessi sulla sua vita quotidiana. Rohmer s’interessa in particolare alle pagine in cui la Elliott racconta il periodo del Terrore, visto come l’incubo di una ragione degenerata, un’utopia sanguinaria e feroce dove le lame di ghigliottina cadevano come pioggia nelle piazze della Rivoluzione.
Il punto di vista “nobiliare” scelto dal regista gli causò non poche accuse di revisionismo storico. In verità, il film non porta avanti alcuna schematica tesi controrivoluzionaria ed è, soprattutto, il raffinatissimo ritratto di un’epoca. L’ambientazione settecentesca diventa, per Rohmer, il luogo perfetto in cui mettere in scena il suo teatro della parola, la “retorica degli affetti”, il groviglio di pulsioni sentimentali, doveri morali, casi e destini che sono sempre stati il soggetto di tutti i suoi film.
Ma ciò che rende questa pellicola tipicamente rohmeriana e, pure, assolutamente originale all’interno della filmografia del regista (anche rispetto alle sue precedenti pellicole storiche La marchesa von... e Perceval) è la sua costruzione pittorica. Trama e dialoghi sembrano passare in secondo piano, quasi come didascalie, di fronte alla bellezza delle immagini che colpiscono l’occhio come quadri in movimento. È nata proprio da qui l’ispirazione del film, dal cercare di mostrare la Rivoluzione come la vedevano coloro che l’avevano vissuta. I personaggi sembrano entrare nelle scenografie, creando l’effetto di un maestoso dipinto d’epoca che prende vita e si anima in un illusorio “tableau vivant”.
Sono le immagini che si fanno narrazione. Del resto, che cos’è una visione del passato se non quello che resta attraverso gli oggetti che quello stesso passato ci ha lasciato? Al di là del diario della Elliott (lei stessa ritratta da Thomas Gainsborough), Rohmer sembra voler perseguire l’utopia di realizzare un film storico partendo da quello che era il “cinema” dell’epoca settecentesca: la pittura.
Se i modelli cinematografici dichiarati dal regista sono stati Le due orfanelle di David Griffith, Napoléon di Abel Gance e La marsigliese di Jean Renoir (ma potremmo aggiungere almeno Danton di Andrzej Wajda e Il mondo nuovo di Ettore Scola), è soprattutto a quadri e disegni di Jacques-Louis David, Eugène Delacroix, Joshua Reynolds o Hubert Robert che viene da pensare. Grace Elliott sembra uscita da un ritratto della pittrice di corte Elisabeth Vigée Lebrun; il duca di Orléans è robusto, ironico e affannato come il Monsieur Bertin di Jean Ingres.
I costumi, le pose, gli interni e i paesaggi non hanno il fiammeggiante manierismo di Senso o la meticolosa archeologia poetica di Barry Lyndon, ma lasciano consapevolmente trapelare l’artificio, rimandando a Méliès e al cinema delle origini, basato su fondali dipinti artigianalmente (lo scenografo Jean-Baptiste Marot ci ha lavorato ben due anni sotto la direzione dello stesso Rohmer e dello storico Hervé Grandsart). La macchina da presa, spesso fissa come nel cinema muto, persegue durante tutto l’arco del film un’iconizzazione del movimento. La Storia viene incessantemente riportata al quadro. I piani del tempo si dispiegano figurativamente e la Storia si trasforma in immagini di Storia. Tutto il film è concepito secondo il fondamentale filtro deformante di una mediazione che è tout court artistica, prima che visione politica. L’uso del digitale per ricreare gli sfondi d’epoca produce un’originale mescolanza di antico e moderno, lasciando nello spettatore l’impressione di trovarsi di fronte a un prezioso simulacro pittorico, chiuso all’interno di un acquario. Tuttavia, dietro la sembianza della quiete apollinea della forma, è il sangue a scorrere, i giochi del potere, la ferocia della folla, la demagogia della politica, le velleità di una classe aristocratica ormai giunta al capolinea della Storia. E le passioni, gli amori, i rancori, i vuoti lasciati dalla morte.
Rohmer smentisce, con il passo cadenzato del suo film, ogni improbabile e astorica asserzione che il passato, il Settecento che vediamo nei quadri posati alle pareti dei musei, possa essere stato un tempo più sicuro e civile, sordo e lontano dalle violente follie che accompagnano il nostro presente come un leitmotiv oscuro e martellante.