L'abbandono della spettacolarizzazione della morte, per concentrarsi sull'intima sofferenza della vittima e della sua famiglia. Un racconto del dolore, attraverso un sapiente uso del mezzo cinematografico, che sorprende e ammalia con terrore.
Spesso e volentieri i film tratti da romanzi sono poco cinematografici e molto letterali. La tendenza dei registi è quella di rimanere troppo ancorati alla poetica della letteratura, non riuscendo a trasporla in poetica cinematografica, funzionante diversamente.
Non è sicuramente il caso di Amabili Resti di Peter Jakson. L'operazione di selezione, che il regista neozelandese compie sul romanzo omonimo di Alice Sebold, è accurata come quella di un chirurgo. A Jackson non interessa mostrare l'efferatezza dell'omicidio della piccola Susie Salmon (Saoirse Ronan), per mano del suo vicino di casa.
Non interessa seguire da vicino le indagini del caso. Piuttosto sono le conseguenze della terribile morte, l'ossimoro della perdita, la presenza data dall'assenza, il processo di assimilazione del dolore ciò che Jackson intende mostrarci.
I Salmon (dei bravissimi Mark Wahlberg e Rachel Weisz) vengono a sapere che il posto in cui il cappello di loro figlia è stato ritrovato era pieno di sangue. Ma di sangue se ne vede poco o nulla in tutto il film - e se il regista in questione è famoso per i suoi splatter-movies, è un dettaglio da non trascurare.
La spettacolarizzazione della morte viene lasciata da parte, per concentrarsi sul dolore intimo della famiglia Salmon e della stessa Susie, che è poi la voce narrante che accompagna tutto il film.
Ma non per questo la pellicola risulta meno terrificante. Anzi, sta proprio qui la bravura di Jackson, che mette in campo un encomiabile sistema di fruizione. Susie è intrappolata in un mondo “personale e perfetto”, a metà tra la realtà e il paradiso, da cui vede susseguirsi la vita quotidiana dei suoi cari - dopo la sua morte - e dentro il quale affronta le sue paure.
Si può obiettare che tutto questo non è poi così orribile, ma il nostro sangue si gela nelle vene quando Susie vede il suo assassino (magistrale Stanley Tucci), immerso in un kubrickiano bianco orrorifico, intento a lavarsi il sangue del delitto; quando rivive la sua morte, scopre dov'è il suo corpo martoriato, vede picchiare a sangue il padre adorato, vede pian piano disgregarsi la sua famiglia dal dolore della sua perdita. E tutto senza poter reagire, ma solo ponendosi nella sua passività. Esattamente come noi fruitori in sala.
Che questo mondo di mezzo odori di metacinematografico è indubbio. Jackson stesso ci strizza l'occhio, facendo mangiare dei pop-corn all'amica di Susie, mentre guardano la vita amorosa della sorella (Rose McIver).
Inoltre, questo sistema che, creato all'interno di una cornice predefinita (il film stesso), permette la fruizione di spaccati di vita quotidiana, provoca una moltitudine di generi cinematografici: fantasy (il mondo di mezzo); horror (le paure oniriche di Susie); thriller (la figura dell'assassino e la suspance che genera); drammatico (il dolore di una famiglia che si disgrega per la perdita di un suo componente); commedia (la figura quasi macchiettistica di una Susan Sarandon, nei panni di una nonna preda dei peggiori vizi di quella società americana degli anni Settanta, impeccabilmente rievocata attraverso costumi, scenografie, musiche e fotografia); teen-movie (gli amori adolescenziali e la “grafica kitsch” del mondo di Susie).
Questo è saper utilizzare il mezzo. Questo è saper creare una poetica del cinema, partendo da un'opera letteraria. Questo è un Peter Jackson più maturo.