L’onda lunga del pensiero eretico e controcorrente di Pier Paolo Pasolini non ha ancora esaurito i suoi effetti e anzi sembra più attuale che mai.
Di Pasolini, della sua vita e dell’influenza che il suo pensiero continua a esercitare sulla cultura italiana di sinistra (ma esiste una cultura che non sia di sinistra in Italia?) si continua a parlare: saggi, mostre, convegni, articoli sulle pagine culturali dei più importanti quotidiani italiani.
Nuovi protagonisti della scena culturale come Emanuele Trevi (finalista al premio Strega 2012) e Walter Siti (vincitore del premio Strega del 2013) hanno dichiarato apertamente di essere diventati scrittori studiando l’opera di Pasolini e nel loro lavoro si ispirano ai suoi scritti e alla sua poetica.
Anche Gianfranco Rosi non è da meno. Sacro Gra è un film pasoliniano a tutti gli effetti, sia per le tematiche trattate, sia per la forma di racconto utilizzata.
Le persone che stanno ai margini del “Grande Raccordo Anulare che circonda la capitale” (cit. Corrado Guzzanti) sono loro stesse marginali, vivono in una specie di mondo parallelo, un po’ pazzo, ma anche ricco di umanità, di voglia di vivere, di curiosità, di capire e interpretare il mondo.
Dal pescatore di anguille sul Tevere, al nobile decaduto (o presunto tale) che affitta il suo maniero kitsch a set per fotoromanzi o a improbabili convegni italo-lituani sulla massoneria, per arrivare al barelliere che si divide tra la vecchia madre malata di demenza senile e il soccorso alle persone che si schiantano sul raccordo anulare.
Il punto di vista di Rosi è quello dell’osservatore neutrale. O, se si preferisce, il suo è il punto di vista dell’osservatore ingenuo che non vuole giudicare sulla base della propria esperienza o del proprio pre-giudizio, ma di colui che vuole vedere, capire, scoprire.
E qui veniamo alla forma di racconto scelta. Il film non ha un inizio, non ha una fine, non ha una storia, ci sono però molte microstorie intrecciate le une nelle altre (tecnica utilizzata peraltro anche da Matteo Garrone con Gomorra) che vengono seguite dall’autore non come un racconto tradizionale ma come una semplice traccia di un più grande percorso esistenziale, proprio come aveva fatto Pasolini per esempio con i suoi romanzi Ragazzi di vita o Una vita difficile.
Il film ha ricevuto il Leone d’Oro alla 70ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia non a caso.
L’opera ha un indubbio valore artistico, ma la spinta decisiva all'assegnazione del premio è arrivata dal presidente della giuria, Bernardo Bertolucci, che con Pasolini ha condiviso fin dalla giovinezza la parte fondamentale della sua esistenza grazie all’amicizia tra Pasolini e suo padre, il poeta Attilio Bertolucci. E dunque, per Bernardo, Pasolini è stato un componente aggiunto della sua famiglia e non poteva non rendergli un ultimo grande omaggio assegnando il premio a questo film.