"quando si muore si ha ben altro da fare
che di pensare alla morte"

I.Svevo, La coscienza di Zeno


Nell’area urbana di San Francisco, dalla “torrida” estate del 1968, un assassino inizia a compiere la sua catena delitti, firmandosi con il senhal di Zodiac, ed inviando ad i principali organi di informazione messaggi in codice. Una coppia di detective è incaricata di seguire il caso, ma anche due strampalati personaggi (un giornalista alla ricerca dello scoop ed un vignettista timidamente frustrato, nonché appassionato di enigmistica) si mettono alla ricerca del pericoloso ed invisibile assassino…
Riassunta così, la trama di Zodiac, ultimo lavoro di David Fincher, presentato in concorso al Festival di Cannes appena concluso, rischia di generare fraintendimenti. E di far passare il film per il thriller che non è. Intanto, Zodiac si basa su vicende realmente avvenute: snodandosi su di un piano temporale consequenziale, ma incredibilmente complesso e destabilizzante, ricostruisce i fatti, le indagini, ma soprattutto l’influenza esercitata dal “caso Zodiac” sulle persone. Sulla società, in primis, e sui quattro personaggi protagonisti, soprattutto. In un interessante passaggio che va dalla psicosi collettiva all’ossessione privata. La verità dei fatti, intanto, priva il film di qualsiasi pretesa di finale. In una crescita di pessimismo: se l’assassino resta impunito, le vite dei protagonisti, dei loro congiunti, resteranno per sempre sconvolte. Come nel più classico teorema novecentesco, l’irruzione dell’altro modifica inevitabilmente l’io. Per poi scomparire, in un camposanto di vite lacerate. Per questo è poco, magari rispetto a Seven (1995) il sangue che scorre: è l’interiorità che si slabbra, le più profonde emorragie che l’assassino provoca sono quelle interne. Ma già in Seven, film-capolavoro-anomalia, di assassinii mai in diretta, il tragico epilogo, unico delitto non mostrato, scavava dentro. Zodiac è un film che procede in assenza: di eroi, di vittorie, di soluzioni, di serial killer fascinosi. Tutti i cliché di genere sono banditi, e prende il loro posto la paura. Amplificata dal riverbero provocato dall’altra “mancanza”: quella del movente. Non si uccide per nessuna ragione: sia odio, vendetta, o solamente noia. Si uccide e basta. Ed il male, l’orrore della fine, spogliato di ogni senso, trasforma, per così dire, la morte violenta in morte insensata, replica in negativo della morte naturale.
Ci pare di dovere individuare in questo punto il vero elemento di novità, il Teorema che Fincher sceglie di dover dimostrare. Svuotata dalle implicazioni politiche che costituivano – in un climax ascendente di innegabile valore figurativo e metaforico, del quale l’urlo di Girotti era il compimento ideale - il centro dell’assunto pasoliniano, l’incapacità del borghese di vivere il sacro, la trama fincheriana, generata, per così dire, dal reale, è uno specchio fedele della crisi dell’uomo contemporaneo. L’assassino resta impunito: e non per incapacità o leggerezza di qualcuno dei personaggi, quanto per avere oramai assolto il suo ruolo, e dunque essere condannato a scomparire, in modo tale da permettere alla crisi di emergere. I veri cadaveri che galleggiano sono quattro, ed hanno i nomi, e le fattezze, dei protagonisti del film. E rispetto alle precedenti opere di Fincher, ciò che permette tale deriva è il fattore temporale: l’assurda dilatazione cronologica della vicenda, tale da inghiottire quasi tre decenni.
Certo, i pezzi di bravura sono tanti. Basterà citare la sequenza dell’omicidio in pieno giorno della coppietta davanti al lago, che dimostra come Fincher abbia pienamente introiettato la lezione dello Shining kubrickiano; o qualsiasi delle frenetiche scene ambientate nella redazione, dove lo Scorsese di Fuori Orario non è che il punto di partenza; o ancora, la scena in cui Jack scende nello scantinato del presunto colpevole, che si muove a partire dalla scena finale de Il silenzio degli innocent di Demme, e poi si dirige oltre. Ma tutto ciò perde di senso, e si fa ostico, se non accompagnato da una ampia lettura, che individui nella irruzione dell’altro (senza nome), il vero fulcro narrativo.
La scelta di ambientare una scena di Zodiac in un cinema dove si proietta Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo (1971), noto film di Don Siegel, anch’esso ispirato alle “imprese” dello stesso assassino, è eloquente, e a questo punto della nostra lettura, veramente importante. Perché, se il film di Siegel, opera di rottura rispetto alla classica tradizione del poliziesco, si collocava comunque all’interno del “sistema-genere”, Zodiac si pone oltre. In una zona dove il Genere è incerto, indeciso e barcollante tra la rarefazione e la scomparsa.