"La società di Fight Club definisce i suoi abitanti in base al lavoro, trasformandoli attraverso la pubblicità e il consumismo in «schiavi prostrati di fronte a una montagna di cose che li rendono insicuri per via della propria mancanza di perfezione fisica, della mancanza di soldi e di fama».
La città è rappresentata come buia, sporca (caratteristica tipica del cinema di Fincher), dominata da lampioni e cartelloni pubblicitari che sembrano opprimere il personaggio, intrappolarlo. Essa è l'espressione cupa e spettrale di una società consumista ridotta a un insieme di immagini promozionali e fortemente desensibilizzata da esse.
In un tessuto sociale dove il confine tra autentico e superficiale è sempre più labile, la distinzione tra reale e immaginario sembra venir meno.
Il colpevole della condizione schizofrenica qui analizzata non è tanto l'uomo (con le sue eventuali turbe congenite) ma la società, che, essendo dominata dal consumismo, finisce per mercificare ogni cosa.
In tale cornice l'individuo finisce per cercare nelle merci una realizzazione personale anziché sviluppare relazioni interpersonali, riducendo se stesso e gli altri a oggetti. E' in questa condizione di estremo consumismo e totale mercificazione - imposta dalla cultura moderna e postmoderna - che vanno rintracciate le radici della schizofrenia del protagonista.
Attraverso la messa in scena del disagio vissuto dal personaggio principale del film, Fincher critica in modo esplicito la società dei consumi, centrata sul possesso materiale e su un'illusione di benessere che finisce per allontanare l'individuo dalla coscienza del proprio essere.
Ciò viene denunciato esplicitamente nel film da Tyler Durden, alter ego del protagonista: 'Tu non sei il tuo lavoro, non sei la quantità di soldi che hai in banca, non sei la macchina che guidi, né il contenuto del tuo portafogli, non sei i tuoi vestiti di marca'."