La famiglia, il falso documentarismo e i rimandi intertestuali: questo il sottotitolo di una nuova analisi del cult di Hooper che, proprio in quanto tale, non può mai smettere di essere oggetto di osservazione oltre che documento speciale per un'epoca cinematografica che ha partorito dei casi unici, divenuti punto di riferimento per le generazioni di cineasti venute subito dopo.

Uno dei punti di vista da cui è letto quello che in Italia è noto come Non aprite quella porta è la famiglia, alle prese con la crisi degli ideali dei quali l'America si era nutrita per decenni e che ora diventa un covo malefico, degenerato e dove i suoi membri non sono più così facilmente riconoscibili, tra chi è pazzo e chi sembra mummificato su una sedia...

Là dove tutto viene risucchiato e martoriato, il matattoio, diventa così simbolo di quel nevralgico collasso delle certezze post Watergate e Vietnam che hanno sconquassato e ribaltato le dinamiche e le apparenze del focolare. Qui il responsabile e procacciatore di cibo è Leatherface, assassino non solo perché sadico, ma proprio in funzione di un ruolo fondamentale per la sussistenza dell'inquietante famiglia Sawyer.

Interessanti suggestioni sono i riferimenti alla parodia del West come luogo di agognata frontiera e l'accostamento del film a passaggi grotteschi di Alice in Wonderland così come di numerose fiabe, costruite intorno alla casa come luogo del riparo/pericolo. Dal punto di vista dell'impatto visivo l'autrice va alla ricerca di parallelismi con la fotografia e l'arte pittorica, con accostamenti alle tavole di Edward Hopper o ai ritratti icastici del gotico americano.

Altro aspetto preso in esame è quello del falso documentarismo, espediente che Hooper utilizzò un po' per esigenza e un po' per sperimentazione, assicurando alla sua pellicola quella percezione di cruda realtà che ancora fa tanto effetto alla spettatore. Si affronta il posto che il film si è ritagliato all'interno del discusso concetto di cinema vérité anche in rapporto alle pellicole similari del periodo.

Il lavoro di Soraia di Fazio è un bell'ampliamento della tesi di laurea dell'autrice, che si avvale della sempre puntuale prefazione di Fabio Zanello e di una più che affascinante postfazione a cura di quella Teri Mc Minn che per anni è stata dimenticata e che si è trovata, suo malgrado, al centro della curiosità dei fan dopo più di un decennio, tutti alla ricerca della ragazza che aveva interpretato una delle scene più gore del film. Dalle parole dell'attrice si evince chiaramente lo spirito di chi ha girato un film a basso budget in quegli anni, senza garanzie né tutela, in balìa di produzioni dell'ultimo minuto; un incredibile ritratto che riporta il lettore indietro nel tempo, quando gli anni Settanta si preparavano a cambiare la storia del cinema horror.