Breve, questo mio pezzo. Perché ci dispiace questa battuta di arresto, questo passo falso che giunge inatteso, dopo la complessa semplicità, de 'La promessa dell’assassino', e 'History Of Violence'. Si parli pure della volontà di proporre qualcosa che non fosse à la màniere de.
Di quanto stia tra i diritti costituzionali di un artista quello di reinventarsi. Ed anzi, se proprio vogliamo dirlo, tanto di encomio a chi non si ricicla, a chi nell’eclettismo ha saputo costruire il proprio stile. Ce lo ha dimostrato Almodovar, poche settimane fa.

Ma A dangerous method (chissà perché era così difficile tradurlo) ha proprio qualcosa che non va. E’ un Cronenberg svuotato del suo autore. E se possiamo apporre alibi più o meno plausibili – non ultimo, il biopic come genere – non possiamo nascondere che le premesse (o le promesse di chissà quale assassino) c’erano. Eccome.
A partire dalla tematica, che poteva risultare cronenberghiana al cento per cento: corpo e mente esplorati attraverso le figure di Freud, e Jung, nel loro incontrarsi, e scontrarsi, per un triangolo anomalo. Compenetrare body horror e mind horror. Parlare dei delicati equilibri che regolano le armonie sociali. Dimostrare – e questo in parte il film lo fa – che la psicanalisi è stata la peste del secolo scorso. Ed il linguaggio, le parole, i suoi virus, i germi attraverso i quali si è diffusa, ai quali opporre le cure di un difficile silenzio, e quella dell’uso del corpo.
Ma si sa, il principio di realtà sottomette il principio del piacere, ed il film è l’illustrazione dell’eccedenza del linguaggio verbale rispetto al gesto, al linguaggio corporale. Non a caso Sabina (una Keira Knightley a dir poco improponibile), nel suo percorso di egemonia sul proprio corpo, e dunque di abitudine al linguaggio, passa attraverso la fase punitiva, onde trattenere il dominio fisico rispetto a quello intellettuale.

Strano, tutta la carriera del regista sembrava portare a questo rende-zvous, a questo film: dalle analisi delle modifiche del corpo operate dalla scienza ('Il demone sotto la pelle', 'Rabid', 'La mosca'), fino alle opere psicologiche, dove si scandagliavano la realtà oggettiva e soggettiva ('Il pasto nudo'), i vari mondi possibili nell’arte e nella messinscena ('M.Butterfly', 'existenZ'); il disagio psichico ('Spider'). Ogni volta avvicinandosi di più alla tematica urgente del doppio, culminata in Inseparabili.
La trama, già esplorata dal Roberto Faenza in Prendimi l’anima, è nota: il triangolo, nella Zurigo – Vienna di inizio novecento, tra Freud, Jung, e la paziente Sabina Spielrein, anche lei poi destinata a far parte della comunità psicoanalitica. Il tutto in un potpourri che mescola Edipo, simboli fallici (non si dimentica il Freud di Mortensen, che mastica sigari come John Wayne), connubi noti (Eros e Thanatos) e presagi più o meno navigati (Wagner, la guerra, il nazismo, i campi di concentramento da una parte, dall’altra la scoperta della fonte dell’attuale condizione di infelicità).

Si potrebbe tentarne una interpretazione, la psicanalisi come metafora del Cinema: nasce in Europa, e gli anni sono pressappoco gli stessi, si nutre dello sguardo, e delle parole delle persone, si sposta negli Stati Uniti (il viaggio verso New York), e, in un certo qual senso, “porta la peste” nella cultura, cambiandola per sempre. Mescolando come mai era stato fatto, diverse forme d’arte.

Detto tutto ciò, comunque si esce di sala con l’amaro in bocca ed una forte percezione di incompiutezza.
Con un film breve ma che sembra non terminare mai: parlato troppo, forse. Ma sia chiaro, nessuna caratteristica è un difetto in assoluto, lo dimostra il delizioso 'Carnage'.
Note di merito ad una regia elegante, di inquadrature fisse, impassibili come i volti dei protagonisti, ma che pare un Visconti postmoderno, o un Ivory che abbia preferito la carriera di arredatore. E al breve ruolo di Cassel.