Carta bianca a… Paolo Mereghetti
Mercoledì 30 aprile - Cinema Trevi (Vicolo del Puttarello 25 - Roma)
Un nuovo appuntamento al Cinema Trevi: “Carta bianca a…”, da un’idea di Goffredo Fofi e Paolo Mereghetti, volta a valorizzare le passioni più nascoste dei critici italiani e a soddisfare quindi la curiosità dei cinefili grazie al recupero di capolavori dimenticati o, comunque, di film meritevoli di essere rivisti. Carta bianca quindi a Paolo Mereghetti, critico del «Corriere della Sera», da sempre nostro collaboratore “ombra” con le schede del suo fortunatissimo dizionario, punto di riferimento per chi scrive di cinema.
«Comprimere in soli tre titoli i “guilty pleasures” di una lunga frequentazione cinematografica è praticamente una tortura. E fermarsi ai titoli italiani non aiuta per niente. Anzi, aumenta i tormenti. Così ho deciso di darmi regole ancora più strette, limitando la mia scelta agli anni Cinquanta, cioè agli anni più belli ma anche meno conosciuti del nostro cinema.
Poi, però, ho dovuto fare i conti anche con l’impossibilità (o la difficoltà) di trovare certi film. E così, aspettando di poter finalmente disporre di una copia a colori de “La Nave delle donne maledette” di Matarazzo o di un positivo proiettabile di “Papà diventa mamma” di Fabrizi o di “Noi due soli” di Girolami, Metz e Marchesi, ho scelto tre film per cercare di rendere un po’ di giustizia a registi e filoni ancora troppo dimenticati. Il culto di Leonviola è coltivato, ahimé, solo da pochi, spregiudicati pionieri, quello di Gora regista ha abbattuto qualche steccato ma procede a fatica, quello di Soldati ha dovuto aspettare il centenario della nascita per ricevere un po’ dell’attenzione che merita. Ma quello che mi piace sottolineare è che tutti e tre i film scelti – “Noi cannibali”, “Febbre di vivere” e “Fuga in Francia” – offrono tre declinazioni diverse del melodramma, un genere troppo volte sbrigativamente condannato e invece meritevole di una ben maggiore attenzione. Soprattutto se si vuole capire davvero buona parte della storia del cinema italiano e dei suoi rapporti con gli italiani».
ore 17.00 - Fuga in Francia (1948)
Regia: Mario Soldati; soggetto e sceneggiatura: Carlo Musso, Ennio Flaiano, M. Soldati; collaborazione alla sceneggiatura: Mario Bonfantini, Emilio Cecchi, Cesare Pavese; fotografia: Domenico Scala; musica: Nino Rota; montaggio: Mario Bonotti; interpreti: Folco Lulli, Rosi Mirafiore, Mario Vercellone, Giovanni Dufour, Enrico Olivieri, Pietro Germi; origine: Italia; produzione: Lux Film; durata: 104’
«Dopo la Liberazione, il tentativo di fuga verso Grenoble dell’ex gerarca Riccardo Torre (Lulli) e di suo figlio Fabrizio (Olivieri) si intreccia con quello di tre operai che vogliono emigrare clandestinamente in Francia, il sognatore Gino (Vercellone), il disilluso Tembien (Germi) e il “tunisino” (Du Four), il più allegro e superficiale dei tre. [...] Insolito e coraggioso thriller politico, [...] costruito sapientemente su due dei grandi temi sociali di quegli anni: il fascismo non ancora rimosso e l’emigrazione come unica prospettiva concreta per trovare lavoro. Un’opera da rivalutare per il cinema italiano e una svolta personale per Soldati che, con uno stile a metà strada tra il neorealismo e l’espressionismo made in Usa (possibili le influenze di Welles), vivifica la sua eleganza compositiva con inquadrature dai tagli irregolari e dall’illuminazione contrastata, con riprese dal basso di primi piani e soffitti incombenti, legati tra loro da un montaggio carico di tensione drammatica. Folco Lulli giganteggia nel ruolo di un fascista senza rimorsi, cinico e crudele (che lo scenografo e costumista Piero Gherardi fa vestire sempre con un inquietante cappottone nero), vera anima dannata di un mondo che sembra ancora appartenergli, ma altrettanta bravura mette Pietro Germi nel disegnare il ritratto dolente del reduce Tembien [...] e Soldati nel raccontare la figura del piccolo Fabrizio, a cui la giovanissima età non risparmierà un drammatico confronto con la crudezza della vita» (Mereghetti).
ore 19.00 - Noi cannibali (1953)
Regia: Antonio Leonviola; soggetto: A. Leonviola; sceneggiatura: A. Leonviola, Gian Gaspare Napolitano, Giuseppe Mangione, Daniele D’Anza; fotografia: Aldo Giordani; musica: Bruno Maderna; montaggio: Roberto Cinquini; interpreti: Silvana Pampanini, Folco Lulli, Milly Vitale, Vincenzo Musolino, Giuseppe Porelli, Gildo Bocci; origine: Italia; produzione: Excelsa Film, Slogan Film, Marea Film; durata: 90’
«Una ballerina d’avanspettacolo, Virginia (Pampanini), e un marginale che si arrangia col contrabbando, Aldo (Musolino), si mettono insieme sperando di rifarsi una vita: lei deve continuamente respingere le avances degli uomini (bellissima la sequenza della festa popolare durante la quale il ballo si trasforma in una specie di stupro collettivo), lui fatica a trovare a lavoro. [...]. Straordinario melodramma sceneggiato dal regista con Gian Gaspare Napolitano, Giuseppe Mangione e Daniele D’Anza, che si stacca per forza di stile e d’astrazione dalla produzione corrente di quegli anni. Ambientato tra i baraccati del porto di Civitavecchia (dove il lavoro dello scenografo Luigi Scaccianoce si fonde perfettamente con le riprese del vero), il film sa evitare l’ottimismo ideologico di certo neorealismo e il moralismo consolatorio di tanti melodrammi [...]. Recuperando una lezione di stile che viene direttamente dal cinema degli anni Trenta (Clair, Pabst), Leonviola racconta la disperazione senza uscita di chi si sente destinato alla sconfitta con uno stile molto controllato (certe inquadrature, specie dei panorami industriali, ripropongono la lezione della pittura metafisica) e in questo modo evita gli eccessi didascalici che potrebbero derivare dall’uso di elementi dichiaratamente simbolici [...]. Straordinario il lavoro di Aldo Giordani sul colore, “filtrato nel Ferrania squillante che illustra la passionalità di una Pampanini da bidonville”, assolutamente convincente in uno dei più bei ruoli di tutta la sua carriera. [...]. Leonviola è la maschera che all’inizio del film fa entrare lo spettatore nel teatrino di varietà» (Mereghetti).
ore 21.00 - Febbre di vivere (1953)
Regia: Claudio Gora; soggetto: liberamente tratto dal dramma Cronaca di Leopoldo Trieste; sceneggiatura: Suso Cecchi D’Amico, L. Trieste, Lamberto Santilli, Filippo Mercati [Luigi Filippo D’Amico], C. Gora; fotografia: Enzo Serafin, Oberdan Troiani; musica: Valentino Bucchi; montaggio: Mariano Arditi; interpreti: Massimo Serato, Marina Berti, Anna Maria Ferrero, Marcello Mastroianni, Sandro Milani [Alessandro Mancinelli-Scotti], Nyta Dover; origine: Italia; produzione: P.A.C. (Produzione Artistica Cinematografica); durata: 110’
«Ribelle e amorale, Massimo (Serato) si vede costretto a confrontarsi con le proprie azioni quando scopre che la fidanzata Elena (Ferrero) è incinta e Daniele (Mastroianni), che lui aveva tradito, esce di prigione. Per cavarsi d’impiccio cerca di piegare ai propri voleri il giovane Sandro (Milani) e l’ex fidanzata Lucia (Berti), ma questa volta l’esito delle sue azioni sarà ben più tragico. Uno dei più insoliti e crudeli film dei primi anni Cinquanta, che tra i primissimi punta l’obiettivo su personaggi di giovani borghesi ai margini del bel mondo romano. [...] il film rivela, dietro una trama non perfettamente controllata e qualche dialogo un po’ troppo letterario, un moralismo acre e spregiudicato, decisamente controcorrente per quegli anni (per esempio parlando di aborto – cui Massimo costringe Elena – come di una pratica molto conosciuta nella rispettabile, e religiosa, borghesia). Problemi finanziari rallentarono le riprese iniziate nel 1951 e permisero la distribuzione del film solo due anni dopo» (Mereghetti).
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