Il miglior film di Tim Burton dai tempi di Big Fish. Dopo la delusione di Alice in Wonderland, l'ex disegnatore Disney trova una miscela vincente tra horror gotico e commedia brillante per due ore di esaltante divertimento.
Il prologo è perfetto e sistema il film sui binari del cinema dell'orrore, direi, classico, riscoprendo, nella produzione di Burton, le atmosfere tetre che erano state la forza di Il mistero di Sleepy Hollow.
Barnabas Collins, figlio di inglesi migrati in America a fine 700 e diventati imprenditori nel ramo ittico, è oggetto dell'amore di una serva, non ricambiato a sufficienza. Questa è una strega, che si vendica mandando a morte i suoi genitori, la sua amata e condannando Barnabas ad un'eterna condizione vampirica, prima di farlo seppellire in una bara serrata con metri di catene.
Degli operai lo risvegliano nel 1972 e il protagonista è intenzionato a riprendersi la sua magione, ora abitata dai suoi discendenti, e vendicarsi della strega, vissuta sotto varie sembianze per due secoli e divenuta, a sua volta, un colosso nell'industria ittica.
Le parentesi comiche sono inevitabili. Un nobile del '700 si confronta con McDonald, la musica anni '70 e la cultura hippie. I giovani capelloni vengono trucidati dal vampiro, non c'è più posto per loro così come nel prologo di Lo squalo, mentre il rock ha la meglio con la clamorosa esibizione di Alice Cooper nella parte di se stesso nella festa data prima dell'epilogo in casa Collins. Gli anni '70 funzionano in questo caso; anche chi non li sopporta non può non riconoscere in essi l'elemento in più del film, che, del resto, rispetta l'ambientazione della serie di Dan Curtis da cui è tratto.
Il colore e la musica di quegli anni si incastrano in modo sorprendente in un affresco di nobiltà decaduta che affonda le radici ai tempi delle rivoluzioni. L'ideale ritorno in auge della famiglia Collins è il trionfo dell'ideale americano di fine Settecento, costruito sul materialismo e sull'idealismo, nei confronti del sopruso del capitale accumulato sul lavoro altrui, incarnato dall'operato della strega Eva Green.
Il rapporto tra il vampiro e la strega è un forte filo conduttore dell'intreccio, ancora più del legame del protagonista con l'istitutrice di casa Collins, la reincarnazione dell'amata uccisa in passato. Il tema stokeriano, anzi, coppoliano, dell'amore reincarnato lascia spazio al rapporto ambiguo ed esplosivi tra i due mostri e alla carica erotica che ne sta alla base, aspetto che li rende molto più umani di quel che sembra.
Ne è prova, oltre all'amore fisico tra i due, il commovente commiato di lei morente, bambola di ceramica ridotta in cocci che si spezzano, così come il cuore; mi ha fatto pensare a Olimpia di Hoffmann. Allegoria dell'amore odio. Del resto il vero finale, con l'istitutrice trasformata in vampiro poco prima di suicidarsi, è meno potente sul piano emotivo, anche se chiude il cerchio della fiaba dell'amore ideale ed eterno.
L'omaggio di Burton alla serie omonima anni Sessanta ha quindi colto nel segno, grazie anche alle sfumature ironiche, che, per altro, stemperano la comicità involontaria di certe situazioni della versione originale. Un horror ricchissimo di elementi tradizionali: il vampiro, la strega, il licantropo, il fantasma sotto il lenzuolo, il maniero con la stanza segreta, il popolo in marcia con le fiaccole per uccidere il mostro.
Un impasto vincente su fondamenta sicure. Tracce di Hammer e Corman; e la strega spezza il bastone del vampiro come Katharine Hepburn all'inizio di Scandalo a Filadelfia.