Abbastanza frequentemente, in questi giorni di acceso dibattito massmediologico – teologico, si è usato L’ultima tentazione di Cristo (1986) di Martin Scorsese come termine di paragone obbligato per il nuovo film di Ron Howard, Il codice Da Vinci. E’ vero, entrambi i film sono scandalosi, tutti e due si rifanno ad opere letterarie (il primo al libro di Nikos Kazantzakis, O teleutaios peirasmòs, il secondo all’omonimo bestseller di Dan Brown) giudicate blasfeme, nella loro volontà di voler mostrare - o dimostrare, nel caso del secondo - la tentazione di esistere di Cristo: sottraendosi al proprio destino di morte e resurrezione, oppure generando figli. Ma se già intercorre una forte divaricazione di valore tra i due libri, la forbice si allarga a dismisura se sono confrontati i due film, tanto da rendere assurdo il paragone stesso.
Il codice Da Vinci di Howard, presentato come evento di apertura dell’ultimo festival di Cannes, ancora in corso, e già tassellato di altri eventi - scandalo, è un film noioso, che riesce nel difficile compito di sottrarre azione e mistero ad una vicenda che, all’origine, ha almeno il merito di essere avvincente. La pietra dello scandalo, nel libro come nel film, è la presunta dimostrazione della negazione della castità e dell’immortalità di Cristo, che avrebbe generato una discendenza con Maria Maddalena, approdata in Francia, dalla quale sarebbe scaturita la prima dinastia regnante francese, quella Merovingia, per poi giungere fino ai giorni nostri, protetta dal Priorato di Sion. Intanto a me pare più scandaloso che un libro, scritto da un autore che dibatte sui Vangeli come un Dottore della Chiesa, e sull’arte come fosse un Vasari, dopo essersi documentato poco e male, sia stato preso in così tanta considerazione da intellettuali e religiosi pro e contro. Questo senza parlare della oramai accettata falsità dei dossier secrets, compilati con ogni probabilità da Pierre Plantard nel 1967. O delle tante altre imprecisioni presenti nel testo. Ma non siamo qui a dissertare di teologia, tantomeno de Il codice versione letteraria. Mi dirigo quindi a parlare del film, e del perché è un lavoro non riuscito.
Il primo passaggio errato è stato il trattamento: in fase di sceneggiatura si è lavorato per sottrazione e per variazione. E se questa è una regola sacrosanta, vista anche la densità della vicenda narrata da Brown, tale operazione è stata condotta senza ben scandagliare l’importanza del singolo fatto nell’economia del testo: ovvero ci si è mossi arbitrariamente. Così si giunge ad evidenti buchi di sceneggiatura, ad assenze importanti, (ma i criptex, nel libro, non erano due? E Rennes-le-Chateau che fine ha fatto?) ad improvvise intuizioni del protagonista che, non preparate, risultano imbarazzanti (Langdon che, giunto all’epilogo della vicenda, spiega all’improvviso a Sophie la storia della sua discendenza, compiendo pure una datazione immediata di documenti, ammassati in uno scaffale tipo Ikea, senza nemmeno aprirli).
Ma forse è la regia la vera pietra dello scandalo dell’intero film: Howard, regista bravino, avvezzo al kolossal, sceglie di trattare il soggetto con innesti di genere, che spaziano dal poliziesco – e l’unico inseguimento riuscito è, ahimè, castrato dal taglio del primo tempo – all’horror, alla commedia, al peplum di noncurante veridicità storica – la rievocazione della vita di Costantino, e del concilio di Nicea, al quale erroneamente anche Dan Brown fa risalire la suddivisione tra Vangeli canonici ed apocrifi, in realtà già stabilizzati intorno al 190 D.C., è penosa. Tutto ciò crea una assoluta disomogeneità, che sottrae all’opera ritmo e senso. Ci si annoia. Ci si perde, e forse in ciò si dà per scontata per lo spettatore, visto il caso editoriale, la lettura del libro. Anche perché un eventuale caso contrario renderebbe impossibile una visione esaustiva sotto il profilo della comprensione.
La caduta del ritmo: almeno quattro linee di azione principali compartecipano allo svolgersi della vicenda nel libro. Brown, attratto dal funzionamento delle telenovelas, usa un espediente molto simile, suddividendo il testo in brevi capitoli, ognuno dei quali non è finito, ma completato dal successivo, in un meccanismo sicuramente coinvolgente, ma niente a che vedere con l’entralacement di ariostesca memoria. Al film si richiedeva qualcosa di simile, ed invece la ricetta di Howard non funziona granché: il montaggio parallelo in sequenza iniziale, ad esempio, che mostra la conferenza di Langdon e l’omicidio del vecchio Sauniere, non entusiasma: è assente fin dall’ouverture quel quid che cattura il lettore.
Ed il Louvre: mon Dieu, il Louvre è ridotto ad una galleria di croste e pietre inespressive. La grazia alata della Nike di Samotracia, silenziosa sullo scalone che collega la Galerie d’Apollon al Salon Carrè, è ridotta ad una pietra informe, che fa da sfondo ai due fuggiaschi. E le opere pittoriche di Louis David, di Delacroix, Géricault, non hanno un ruolo maggiore. E non mi pare che le tre opere di Leonardo attorno alle quali ruota praticamente tutta la vicenda, la Vergine delle rocce, il ritratto di Monna Lisa, ed il Cenacolo, abbiano – intendo sempre cinematograficamente – la rilevanza che spettava loro. Certo, non ci aspettavamo il senso estetico di Aleksandr Sokurov dentro all’Ermitage, - guardare Arca Russa (2002) per rifarsi gli occhi - , ma persino Dario Argento, in un film riuscito per metà come La sindrome di Stendhal, (1996), ha saputo rendere vivi i tesori pittorici degli Uffizi. Ed invece il Louvre ha come una reazione di chiusura, che scende sulle opere come i gabbioni progressivi del sistema di sicurezza. Ed in una vicenda che dall’arte si muove, e verso l’arte va, tutto ciò suona stonato. E curioso.

Un po’ come la gigantografia della locandina del film, che ho visto in settimana scorsa a Liegi affissa a ricoprire l’abside di una chiesa: “una verità detta con cattive intenzioni, fa più effetto di tutte le bugie che puoi inventare”- William Blake.

“Anche Dio ha il suo inferno: è il suo amore per gli uomini”. F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra