Un movimento rotatorio del corpo, dapprima lento, poi sempre più veloce. Corpo e mente si dissociano in un canto monocorde che diventa estasi. Anche in prigione bisogna trovare il proprio equilibrio, la pace interiore. Meditare a lungo la prossima mossa per salvarsi la pelle, ricongiungersi con il profeta e diventare una sua manifestazione terrena.
Il percorso intrapreso da Malik El Djebena è lungo e sempre costeggiato da sbarre di ferro. Viene arrestato a 19 anni per aggressione. Ha un carattere irruento ma i suoi occhi scuri mostrano fragilità e ingenuità. E’solo e in tasca non ha che una banconota accuratamente piegata. Il suo arresto concide con il venire al mondo: le regole che vigono all’interno di un carcere sono ben altre rispetto a quelle di fuori e Malik lo capisce presto. Vivere per sopravvivere. Uccidere per sopravvivere.
Dapprima ottiene la protezione di un mafioso corso, pagandola a caro prezzo, poi ne diventa il faccendiere, poi il confidente e infine il braccio destro. Malik sopravvive perché non si accontenta e perché sa che la parola data e la fiducia nel prossimo lì sono una moneta di scarso valore. Il tempo è la sua vera risorsa: studiare le dinamiche interne ai diversi gruppi razziali, le gerarchie e i rapporti di forza per riuscire a comunicare con tutti, essere il tramite. Lui che è escluso a priori da ogni fazione, perché non è evidentemente corso ma non ha neanche una formazione culturale musulmana e non è un italiano. Come l’acqua, prende la forma che più si confa alla situazione e cresce, matura il proprio senso critico e le sue abilità. Da servo Malik diventa re.
Audiard mette in scena un romanzo di formazione sui generis, concentrato in un unico luogo la galera, descritta in modo aspro, pungente ma sicuramente realistico. E’ un viaggio scandito da tappe, o meglio capitoli, segnati da incontri fortuiti, e non, con altri carcerati. Sono persone che con le loro storie insegnano e guidano il cammino di Malik con un occhio rivolto al mondo esterno: là fuori ci sono le malattie, c’è la povertà, il precariato e l’ingiustizia sociale. Il regista racconta la ricerca di un’identità unica e coerente, descrive accuratamente le logiche di boss e di comprimari, le alleanze che si stringono tra la mala e la giustizia.
Il profeta è un film che fa trattenere il fiato, dotato di un ritmo incalzante che non lascia prevedere la mossa successiva ma induce a porsi domande, fa emozionare lo spettatore con un’identificazione nel protagonista che a volte calza troppo stretta: soffocante e scomoda, quindi efficace.
Con questa pellicola Jacques Audiard, uno dei più quotati registi francesi, raggiunge la propria maturità espressiva, riallaciandosi al tema dell’incomunicabilità tra differenti culture, già trattato in Tutti i battiti del mio cuore (De battre mon coeur s'est arreté) del 2005.
Forse il segreto per la riuscita di un’efficace comuncazione tra gli uomini è il pieno possesso della parola, delle diverse lingue e del silenzio, come nell’atto meditativo dei monaci dervisci, proposto in una scena: ognuno di noi accanto a sé ha un profeta, uno spirito in grado di farci acuire i sensi, farci intuire il futuro e capire qual è la cosa giusta da fare anche se difficile.