Nietzsche osserva in Ecce Homo come certi autori nascano “postumi”, ovvero successivi al tempo stesso che gli è dato vivere. Spesso perché il genio che è in loro è talmente avanti rispetto all’epoca in cui si manifesta, che c’è bisogno di un tempo fisiologico per poterlo apprezzare.
E’ piacevole poter iniziare questo testo ammantando di tali osservazioni l’oggetto del nostro studio: L’altra faccia dell’amore (The Music Lovers), uno dei più sorprendenti film degli anni ’70, e sicuramente, insieme a Donne in amore (1969) e I diavoli (1971), una delle vette dell’Opus di Ken Russell, classe 1927, talentuoso maestro britannico, oggi purtroppo relegato in un limbo, dopo i non proprio felici esiti degli ultimi prodotti cinematografici.

Possiamo considerare L’altra faccia dell’amore (1971) ascrivibile al genere biografico, anche se questo andrà fatto in una accezione del tutto particolare. Sicuramente Russell subisce il fascino della musica, e dei compositori, fin dall’inizio della sua carriera filmografica: i primi documentari descrivono spesso musicisti, a partire da Portrait of a Soviet Composer (1961), che ritrae Serge Prokofiev, passando attraverso Elgar (1962), Bartòk (1963), The Debussy Film (1965), The Dance of Seven Veils (1970). Troviamo in questi documentari interessanti spunti, soprattutto stimandoli veri e propri prodromi di tematiche ampiamente sviluppate nel film che andiamo analizzando: se l’interesse verso il primo documentario della nostra serie nasce soprattutto da un’immagine, quella dello stesso compositore riflessa in uno stagno, doppiamente importante perché unica reale immagine di Prokofiev in un documentario – fiction, e perché prima rappresentazione legata al tema dell’acqua, The Debussy Film sviluppa un altro segmento molto significativo: al documentario apparteneva una scena lesbica, poi tagliata, nella quale due ragazze si pettinavano a vicenda e poi si baciavano: questa va assolutamente messa in relazione con la tematica dell’omosessualità, centrale al nostro film, vera e propria protagonista del racconto: è infatti innegabile un interesse verso questo motivo da parte del regista che va oltre la provocazione scandalistica. The Dance of Seven Veils, sulla vita di Johann Strauss, ed immediatamente precedente al nostro lavoro, ci permette già una prima considerazione riguardo alla particolare modalità di accesso al genere biografico: il film fu contestato dalla stessa famiglia del compositore, tanto che la BBC, per la quale Russell aveva girato il documentario, dovette realizzare un programma in riparazione, perché trattava del legame tra il musicista ed il nazismo. Lo stesso regista osservò “Era un compositore fascista. Qualunque cosa facesse, era una glorificazione della Razza”. Questa dichiarazione ha per noi una grande importanza, perché illustra perfettamente il criterio usato dal regista nell’accedere al genere biografico: Russell sceglie una precisa tesi interna alla biografia, e conduce l’intero film come un’indagine che mantiene in primo piano quell’unica argomentazione. Ovvero: non che Strauss non fosse vicino al nazismo, o Piotr Ilìc Tchaikovsky non fosse omosessuale, ma scegliere di percorrere la vicenda artistica ed umana di un personaggio in relazione ad un unico determinato punto, quasi esasperandolo, è qualcosa di tangenziale, direi, rispetto al genere biografico tout court. Va anche detto che l’interesse di Russell per la musica prosegue con La perdizione (Mahler is still alive), del 1974, e con Lisztomania (1975).

La prospettiva che istantaneamente colpisce lo spettatore è quella meramente visiva: il film è una festa per gli occhi, ed il talento visionario di Russell è indiscusso. Ma se l’analisi potrebbe benissimo muoversi in questo senso, non penetrerebbe certo lo spirito del film, che ha una rara profondità strutturale e tematica. Tanto che certe critiche negative sono nate proprio dall’aver tenuto in considerazione solo tale aspetto: c’è ad esempio chi, come Mereghetti, ha parlato di “carnevalata”; o chi, come Max Tessier, ha descritto alcune sequenze del film come “in preda a un delirante barocco naturale e senza freno”: è normale non apprezzare certe sequenze considerando i segni proposti da Russell come fini a se stessi, non narrativi, o comunque totalmente svincolati dal contesto – soprattutto tematico – dell’Opera. O interpretando come indipendente la ridondanza che caratterizza l’immagine russelliana nell’uso del colore e nella composizione dell’inquadratura.
Intanto, il film non è solamente biografia di un musicista, ma anche tentativo di musica visiva, ovvero di resa in immagine della musica e del suo, per così dire, tessuto. Secondo un procedimento ed un’intenzione indicata dallo stesso regista, che osservò “Se usi la musica per raccontare cose della (sua) vita fai due cose allo stesso tempo. Lasci alla (sua) arte quello che ha da dire e (…) riconosci che la musica è parte integrale di qualche aspetto psicologico della (sua) vita”. Il film trasforma in immagini ciò che la musica ha da dire, ed è quasi sempre la personale mitologia psicologica del compositore ad emergere: un passato non trascorso che si fa eterno presente durante l’esecuzione musicale. Salvo poi proseguire, affacciarsi in visioni mentali improvvise, turbe psichiche che trascinano in prima linea la follia, altro tema centrale del film. La musica è dunque il fine, ed il mezzo del film: si parla di musica, attraverso le vicende tormentate di un compositore, e attraverso la musica si parla d’altro: ci proponiamo di condurre la nostra analisi proprio intorno a questo “altro”.

E’ utile inserire qui un’osservazione circa la complessa struttura sintagmatica del film, evidenziata da Rino Mele: dopo due brevi sequenze di esordio, e ad episodi, nelle quali il trascorrere del tempo durante una giornata di festa a Mosca è suggerito dal variare della luce, e che, soprattutto, hanno un’evidente funzione di protasi, ovvero introducono i personaggi che muoveranno le fila della vicenda, notiamo una struttura, che definirei ritmica, che suddivide il film in sei sequenze principali, secondo lo schema A, B; C, C1; A1; B1. Sequenze spesso ampie, ma soprattutto significanti, perché è attraverso la loro successione e correlazione che il film assume ritmo, struttura e senso. Le rimanenti sequenze sono quindi, per così dire, “esterne”, non solo per collocazione, vedi le due sequenze iniziali appena descritte, ma perché accessorie, visto che hanno la mera funzione di fornire pochi nuovi particolari sui personaggi, ma non elementi rilevanti sulle tematiche esaminate. Le sequenze A ed A1 sono entrambe sviluppate sul piano della visione ad occhi aperti, della convivenza di presente e passato, di presente e futuro, di ricordi reali e costruiti, sul medesimo livello. Le sequenze B e B1, invece, sviluppano il tema del dolore e della morte in acqua, o a causa di quella: sono i momenti di morte e di angoscia del film. Infine, le sequenze centrali C e C1, mostrano i tentativi di seduzione da parte di Nina su Piotr: momenti violenti, nei quali Russell sviluppa un’altra tematica centrale al film ed alla sua filmografia: il legame tra il sesso, la violenza e la morte. Citando Mele, possiamo parlare di un film che sviluppa una “acronologia sintattica”: A ed A1, sequenze iniziali delle serie estreme dello schema, impossibilitano qualsiasi tentativo di interpretazione cronologica, articolandosi sul non-tempo della visione e del flusso di ricordi; B e B1, sequenze finali delle stesse serie invece, hanno sì un forte parallelismo tematico, perché entrambe suscitate dal tema della morte della madre, ma non hanno alcuna cronologia, in quanto descrivono due azioni unite solamente da analogia tematica, ma distanziate nel tempo. E’ solamente il centrum del film ad avere una struttura cronologica lineare, piccola oasi nel nucleo di un cataclisma di tempo: anche questo fatto ha radici strutturali, in quanto le due sequenze centrali illustrano il tentativo di normalizzazione sognato dal compositore e da Nina: il fallimento di questo, tutto racchiuso in una frase, “Tu volevi un marito, io volevo un matrimonio”, conduce per mano il film nel maelstrom vorticoso di un tempo irregolare.

Utilizzeremo le sei sequenze per ricavare le tematiche sviluppate dal film, partendo dall’analisi della sequenza A: l’esecuzione del Concerto n.1 in do diesis per pianoforte e orchestra al Conservatorio di Mosca.
Al primo tempo della composizione corrispondono piani di ripresa, spesso in dettaglio, ma tutti al tempo presente, ovvero interni, sia spazialmente che temporalmente, alla scena decritta. Vediamo inquadrati Nina, Modesto, Sascia, Rubinstein, ovvero tutti i personaggi che saranno centrali nella vicenda. Inquadrature dunque descrittive, intervallate dai dettagli del volto e, soprattutto, delle mani del compositore che percorrono la tastiera del pianoforte, e ricordano le mani di Prokofiev, altro dettaglio insistito ed insistente in Portrait of a Soviet Composer. La sequenza contiene una breve scena esterna e descrittiva, che mostra l’arrivo di Madame von Meck, che si siede su di un balcone appartato.
Il pizzicato di archi che inaugura il secondo tempo della composizione scoperchia un primo baratro temporale: in flashback, vediamo Sascia, sorella del compositore, in un campo di margherite. Giunge il compositore, e le loro mani, ancora le mani, si cercano, si uniscono. Con l’ingresso del flauto in partitura, il ricordo muta forma e colori: i due, vestiti di bianco, camminano in un bosco di betulle: Russell usa il ralenti, e la loro è una danza. Poi li troviamo in barca, in compagnia della figlia della donna. A questo punto le preziose variazioni musicali si accompagnano ad inquadrature spezzate, ognuna contenuta in un frammento di memoria del musicista, che si vede in un campo di grano, impegnato in diverse attività, prima solo, poi in compagnia della sorella e di sua figlia: Piotr beve il bicchiere d’acqua che Sascia gli ha offerto. Lo vediamo poi su di un’amaca: si situa a questo punto una panoramica estremamente interessante, almeno per come la osserva Mele, e che parte dalla figura intera del compositore, che sta fumando, prosegue attraversando la finestra, e raggiunge l’interno della casa, dove vediamo Sascia suonare il violoncello e Tchaikovsky il pianoforte: davanti a loro è seduta la figlia di Sascia. E’ evidente il valore temporale della panoramica, molto simile, a quella presente in Professione: Reporter (1975) di Michelangelo Antonioni. In realtà, però, nutriamo qualche dubbio su una tale analisi della panoramica, in quanto crediamo che la figura distesa sull’amaca sia quella del marito di Sascia, vestito come Tchaikovsky, e con lo stesso taglio di barba e capelli, come si può notare successivamente, quando va a complimentarsi con Piotr alla fine del concerto. Ciò non toglie, comunque, la precisa volontà dell’autore di creare confusione e dubbio collocando ai due margini estremi di una stessa panoramica due personaggi del tutto similari.
Di nuovo le dita del compositore sono in primo piano: ma ad una identità spaziale, non corrisponde una ipotizzata identità temporale: il compositore muove le dita sulla tastiera in un momento passato, ma suonando la medesima melodia del tempo presente. Quasi ad indicare l’origine stessa del tema del concerto eseguito al conservatorio: ma, soprattutto, la musica è foriera di ricordi musicali, un concerto può stimolare il ricordo di un concerto precedente, in una costruzione in abisso fenomenale. Seguono piani ambientati nel passato, ai quali sono successivi altri che si svolgono nuovamente al presente: a questo punto l’abilità di Russell compie una virata, ed è Nina, futura moglie di Tchaikovsky, a (in)seguire il proprio stream of consciousness, stimolata dall’onda emotiva del brano che suona quasi come canto d’amore a lei dedicato. Non a caso è il suo passato, il suo tramontato sogno d’amore lungamente tallonato a fornirle temi ed immagini: i trilli eseguiti al pianoforte vanno a coincidere con il galoppo dei cavalli che trascinano la carrozza sulla quale lei stessa sta viaggiando in compagnia del suo tenente-principe. I ricordi di Nina si snodano a tempo di musica fino al matrimonio: chissà se immaginato, per desiderio, o realmente avvenuto. Russell illustra contemporaneamente un altro viaggio, quello che Nina compie, quasi arrampicandosi sui ricordi, per giungere al tempo presente: aprendo gli occhi nella sala del conservatorio, scopre la sedia del tenente vuota, l’uomo se ne è andato perché annoiato dalla musica. E dopo una serie di piani al presente, si inaugura l’ultimo frammento di passato, quello più carico di attriti, e di conseguenze: Piotr e la sorella stanno danzando in un bosco. L’uso del ralenti è mentale per così dire, ovvero è lo stesso compositore a rallentare il ricordo quasi a racchiuderlo in una propria Arcadia mitologica: l’arrivo del conte Chiluvsky distrugge il ralenti e l’armonia: nel vederlo, la sorella se ne va, correndo, fino a che lo stesso Tchaikovsky rimane in solitudine. E’ doveroso perlomeno annotare il transito di soggetto: alle visioni iniziali di Piotr, si sostituiscono quelle di Nina, per poi ritornare a Piotr. Così varia il gioco di sguardi che, al presente, Piotr dirige mentre suona: passando dalla sorella, a Chiluvsky, appoggiato ad una colonna. E le tre donne che avranno importanza nella vicenda, Nina, Madame von Meck, Sascia, dirigono a loro volta il loro sguardo sul compositore: le prime due ancora non ricambiate. Un complesso disegno di sguardi che pare essere disegnato su un pentagramma.
Il presente ed il passato del compositore non hanno mai confini definiti, ma si compenetrano senza soluzione di continuità: tanto che il colloquio con Rubinstein, che conclude al presente la sequenza A, confonde lo spettatore, che si trova spaesato dopo tale percorso temporale. La musica è in questo senso un mezzo di stimolazione, un po’ come l’odore delle cose nella Reserche proustiana: stimolazione però anomala, che suscita fantasmi di passato non sempre realmente accaduti. Nella sequenza corrispondente, che abbiamo denominato A1, infatti, l’Ouverture 1812 accompagna immagini totalmente oniriche: e, soprattutto, collocate stavolta a cavallo tra il presente ed il futuro. Di nuovo, come in A, appaiono tutti i personaggi del film, coloro che lo hanno dolorosamente influenzato: e non a caso il tono trionfale della sequenza, sia sul piano visivo che uditivo, non giungerà oltre i limiti della stessa. Russell realizza una sagra di colori, di nuovo prepotentemente condita con movimenti di danza: solo l’intento simbolico è maggiore. Così vediamo Nina, Sascia, Madame von Meck, le donne di Tchaikovsky, sporgersi da una carrozza di treno e cercare di trattenerlo; le stesse correre verso un muro che il vento non permette loro di raggiungere. Oppure, ed è qui che la sequenza raggiunge il proprio acme, i colpi di cannone che accompagnano, segnati in partitura, il finale dell’Ouverture, si materializzano nell’immagine di Modesto, fratello del compositore, che colpisce, sparando, la testa dei vari personaggi, al ritmo della musica, e quella di Nina è l’unica a non cadere, lasciando un corpo-manichino acefalo, ma a trasformarsi in un sorriso.

Questa sequenza è anche il limite della voluta rappresentazione del corpo stravolto e deturpato, dalla vita come dalla macchina da presa: il corpo è indagato nelle sue profondità, e tra il corpo malato della madre di Piotr (seq.B) e quello di Nina disteso nudo sulla carrozza del treno (seq.C), non c’è poi molta differenza: anzi, il nudo è per Russell una necessità espressiva, specie se “colto nella violenza del coito, della lotta, della tortura, della morte”, ovvero nelle deformazioni corporali è possibile cogliere la verità, le reali caratteristiche dell’uomo. In questo senso la danza, soprattutto se accentuata dall’uso del ralenti, esalta il corpo, ma lo deforma nel contempo. E questa tematica è estremamente importante perché connessa con la violenza, la pazzia, la morte. Tutte sviluppate dalle due sequenze contenutisticamente analoghe, che abbiamo denominato B e B1: nella prima, Piotr sta componendo mentre in casa di Rubinstein si sta svolgendo una festa: il rumore distrae il compositore, che si lamenta. Improvvisamente, giungono le note di una canzone, confusa tra i rumori: egli ne segue la scia, attraversando stanze, ed uno stacco ci piomba in un flashback nel quale lui, bambino, suona il pianoforte per la madre, che canta la stessa canzone. Al presente, Piotr apre la porta del bagno della casa: nella vasca una donna sta cantando la melodia: improvvisamente, questa si trasforma nella madre che, piagata dal colera, è curata in una vasca di acqua bollente. Segue il tremendo ricordo dell’agonia della madre, prima morente nel letto davanti al piccolo Tchaikovsky, poi trascinata dalle infermiere verso la toilette, ed immersa in un bagno bollente che la uccide, mentre il bambino grida “Non la lasciate morire”. Trascorriamo quindi al tempo presente, con Piotr che cerca con forza di far uscire la donna dalla vasca: le sue grida fanno accorrere gli ospiti, che lo trascinano via, e si alternano i piani che mostrano Piotr adulto allontanato con forza dalla vasca, e Piotr bambino separato dalla madre morta. La sequenza B1, invece, illustra i due segmenti finali della storia: da una parte la malattia di Nina, rinchiusa in manicomio, resa irriconoscibile dai capelli corti e dal fisico provato; dall’altra il suicidio di Tchaikovsky. I due segmenti non sono giustapposti, ma continuamente si compenetrano: Nina, vittima del suo amore mai consumato, concede il proprio corpo alle mani lorde di anonimi dementi, sotto gli occhi increduli della madre. Più tardi, nel cortile, muta le sue parole in grida, ed inizia a sbattere contro le pareti: sarà presa, e legata con lacci in cuoio ad un lettino di contenzione. Piotr, a tavola con il fratello, che è divenuto il suo agente, sta decidendo il titolo da dare alla sua Sesta Sinfonia, che chiamerà La Patetica. Poi, sconsigliato dal cameriere e dal fratello, ordina un bicchiere di acqua fresca: bevendo, contrae il colera, mentre le note del primo tempo de La Patetica si diffondono. Dopo uno stacco, lo troviamo morente sul letto: il fratello decide di tentare con l’acqua bollente. Sarà l’immersione a dargli la morte, mentre il regista mostra immagini-flash dei protagonisti della vicenda, intervallate da piani che descrivono l’agonia tremenda del compositore, quasi a volerne mostrare l’ultimo viaggio visivo. In successione vediamo: il personaggio femminile del lago dei cigni; Nina, il giorno dell’incontro con Piotr; Madame von Meck; Chiluvsky, durante la festa data dalla contessa; la madre, ancora ridente; Piotr con Modesto; Piotr e Alexei, suo giovane allievo; Piotr e la nipotina; Piotr e la sorella Sascia.
Le due sequenze sopra descritte si collocano al confine con l’Horror: Russell usa espedienti di genere, ad esempio nella scena della vasca, proprio perché la materia stessa lo richiede, tra l’altro anticipando di nove anni la ben più famosa scena della vasca in The Shining, di Stanley Kubrick, che sicuramente trova qui la sua origine. Lo stesso si può dire per la sequenza del manicomio, volutamente forte. Più che di sconfinamento di genere, parlerei di film multigenere, perché L’altra faccia dell’amore non deve essere attribuito ad un genere preciso quanto ad una gamma di questi, utilizzati al meglio come specchi rivelatori di tematiche precise. La violenza, intanto: il film, e gran parte del cinema di Russell, è dominato da una dose di violenza, sospesa tra un continuo passaggio dallo stato di latenza a quello di attuazione. E se talune scene sono governate da una violenza fisica effettiva, ad esempio quelle appena viste, ci interessa qui sottolineare la violenza sottile, la schizofrenia, che caratterizza i rapporti tra personaggi: dalla violenza psicologica che qualifica il rapporto tra Chiluvsky e Piotr, alla violenza fisica che muove il rapporto tra Nina ed il tenente che, ubriaco, la percuote infrangendo i suoi sogni; fino a giungere al rapporto Nina–Piotr, nel quale la violenza è più subdola, anche se talvolta esternata. E si muove in più direzioni, a partire dalla violenza che Piotr deve fare a se stesso per negare e sotterrare il proprio ego omosessuale.
Dalla violenza, il film passa a parlare di pazzia e di morte: la struttura perfettamente logica del film, confina la vicenda tra due morti identiche, ma di due personaggi diversi, madre e figlio. Per questo la morte percorre l’intero film come un filo rosso, che in realtà ha lunghezza ben maggiore, visto che attraversa i film precedenti e successivi, come una delle tematiche costanti: certo non l’unica, visto che l’Opera di Russell non è che una complessa variazione narrativa su una rosa di tematiche fisse. La morte dà una struttura speculare alla vicenda, dove la ripetizione di gesti affretta il giungere della morte stessa. Così il tema della morte in acqua era già sviluppato in Women in Love, dove i due giovani sposi muoiono annegati, congelati da un fermo immagine in un abbraccio eterno, ed il padre di Gerald Crich muore parlando di acqua: ed il nostro film accentua la tematica, introducendo il valore materno dell’acqua. Non solamente perché la madre muore immersa in un bagno bollente che, identicamente, uccide anche il figlio, in una medesima passione. Ma, soprattutto, perché l’acqua va a coincidere con l’alveo materno, con il liquido amniotico in cui Piotr aveva nuotato prima di nascere. E la morte si fa ritorno, viaggio all’origine della propria storia, ovvero doppiaggio (in)consapevole della propria scena madre: la morte della madre, e della scena stessa. Ripetuta ne I diavoli, con la morte per peste della madre di Madeleine. Non a caso il primo tentativo di suicidio di Piotr, quando entra nel fiume, non riesce, perché il livello dell’acqua è troppo basso: evidentemente manca l’iterazione del gesto materno. La morte dei protagonisti non è accidentale, ma ricercata, inseguita per rassegnazione, alla ricerca di un probabile giorno nuovo posteriore al proprio annientamento terreno. Così il bicchiere d’acqua che Piotr beve, in realtà commettendo suicidio, doppia il ricordo del bicchiere d’acqua offerto a Piotr dalla sorella Sascia in seq.A: e non è affatto difficile leggere in lei il sostituto vivente della madre. Duplicando il gesto, Piotr riceve la morte da una ripetizione sghemba del ricordo: l’acqua che dava sollievo e vita adesso conduce alla morte: nel mezzo sta l’abisso del tempo, ed i ricordi che non hanno la possibilità di conciliarsi con il presente se non attraverso il gesto estremo del suicidio. La presenza della morte è ovunque avvertita, ed il suicidio “obbligato” del protagonista non è che una delle sue manifestazioni: altrove Nina rischia il soffocamento, e le malattie più crudeli sbranano lentamente i corpi.
La pazzia diviene anticamera della morte, già presente anch’essa nel film precedente attraverso il personaggio della madre di Gerald Crich: l’ultima immagine del nostro film, il volto di Nina dietro le sbarre della cella, volto “terminale”, sul quale scorreranno i titoli di coda, appare chiaramente destino già segnato, ed anticipa fatalmente l’abbrutimento fisico delle monache ne I diavoli. L’urlare incontrollato, il toccarsi di umani resi oramai corpi soltanto, che Russell illustra, sembra essere l’unico ed ultimo vero momento di contatto, di partecipazione ed interazione, che agli uomini sia concesso in questo mondo.
Le due sequenze centrali, C e C1, pur incastonate in un miraggio di tranquillità, comunque amplificano le considerazioni attorno alle tematiche sopra descritte: in esse Russell espone i tentativi di seduzione di Nina. Nella prima questa fa una prima prova spogliandosi all’interno del vagone letto dove si trova col marito, oramai ubriaco, durante il ritorno dal viaggio di nozze fatto a San Pietroburgo. Questa sequenza è eccezionale per il ritmo sia uditivo che visivo: le note della Quarta Sinfonia (in realtà in fase di ripresa Russell aiutò gli attori e gli operatori con la musica de L’esecuzione di Stepan Razin di Dmitri Sciostakovic) si mescolano al rumore del treno e alle parole dei due protagonisti. A livello ritmico-visivo, invece, Russell riesce ad ottenere il massimo di movimento con minimi spostamenti del filmico, ovvero la macchina da presa è quasi immobile: i personaggi vengono continuamente sballottati dallo spostarsi asimmetrico del vagone, fino a rotolare sul pavimento, e la semioscurità dell’ambiente, illuminato realmente da un’unica lampada appesa e oscillante, accentua il loro movimento contrapponendo zone d’ombra a zone di luce che variano continuamente posizione. I corpi, prima ancora di apparire ammalati, vengono mostrati come frammenti, masse di carne dolorante che si muovono al ritmo forzato di una rotaia: quello che accadrà al corpo livido di Isabella Rossellini in Velluto Blu (1986) di David Lynch, anche se Russell attacca i corpi con violenza espressiva inaudita: i tagli operati sui corpi dai piani delle inquadrature, come dalle lame di luce interne a queste, decontestualizzano i “reperti” restituendoli alla loro violenza d’origine. I personaggi vivono un momento di erotismo doloroso, molto più vicino alla lotta di Gerald e Rupert in Women in Love, che ad una scena di amplesso. Inserendo qui l’analisi dell’altra sequenza, vediamo emergere il nesso sesso-morte, così presente nell’opera del regista: in essa Nina, dopo un alterco col marito, tenta di baciarlo, ed inizia a spogliarsi: lui si libera fuggendo. Fuori, prova inutilmente a suicidarsi nel fiume poi, rientrato, cerca di strozzare la moglie che, inizialmente, scambia il gesto per un abbraccio. Il sesso e la morte, dunque, vivono stretti: accadeva in Donne in amore, dove l’immagine di un cimitero precede la scena iniziale del matrimonio. Ed avviene adesso, soprattutto a causa di un rapporto di sesso malato, perché vissuto da due persone incompatibili. Non a caso, le successive scene nelle quali Nina si concede, mentre Piotr è fuori, a svariati amanti, sostituti (in)consapevoli di illustri musicisti, puzzano di cadavere più di queste: vi è già la morte nell’ultimo rullo della vita. Un cinema corporale, dunque, che pone il corpo nel proprio centro come oggetto filmico privilegiato.

In conclusione, i presunti limiti del cinema di Russell non sono altro che il frutto dell’adozione di un punto di vista critico errato: il suo è un cinema borghese sulla borghesia. Esibito, sull’esibizione, spettacolare sullo spettacolo. Che ha eccessi, certamente, ma che su tali eccessi si struttura. Nel tentativo, che fallisce se totale, di coniugare Arte e Vita. L’unica via, realmente percorribile, resta quella cinematografica.
Di un cinema artistico, perché sull’Arte.