Tutti hanno visto almeno una volta nella vita “Via Col Vento”. Tutti ricordano i suoi personaggi, i dialoghi celebri, l’immortale chiusa del film.
E’ un film che ha fatto epoca ed ha continuato ad affascinare le generazioni a seguire.
Toccare “Via col Vento” è come toccare la mamma.
Nel 1977 sotto la direzione del doppiaggio di Mario Maldesi e i dialoghi di Roberto De Leonardis, la C.V.D realizza una riedizione del doppiaggio.
Da questi grandi professionisti nasce un testo corretto, privo di certi elementi razzisti, sessisti e nostalgici che erano presenti nel primo doppiaggio d’epoca. Le persone di colore non parlano più all’infinito, Rhett e Rossella non si danno più del “Voi”, ma del “Lei”, molti nomi non sono italianizzati e non si parla più di “Nordisti”, ma di “Yankee”, com’è giusto che sia. Anche i nuovi ottimi doppiatori tra i quali Luigi Vannucchi (Rhett), Ada Maria Serra Zanetti (Rossella) e Anita Laurenzi (Mammy) resero giustizia al doppiaggio d’epoca dei primi doppiatori di Hollywood, le voci per antonomasia Emilio Cigoli, Lidia Simoneschi e Maria Saccenti.
A lavoro finito questo ridoppiaggio fu letteralmente rifiutato dagli spettatori ed è tuttora pressoché sconosciuto.
Perché un adattamento filologicamente più corretto e più moderno non è stato accettato?
Per tentare una possibile risposta prenderemo in esame il personaggio di Mammy (Hattie McDaniel), la cameriera di colore di Rossella.
Tutti ricordiamo i suoi “Zi padrone”e “Zi Mizz Rozela” e tutti in qualche modo siamo affezionati a quella caratterizzazione, anche se alquanto razzista e inadeguata.
Il personaggio di Mammy, infatti, si fondava su di uno stereotipo, ovvero su un insieme di connotazioni che in quegli anni erano condivise o facilmente riconoscibili.
Si consideri che erano gli anni ‘40 e l’attrice Hattie McDaniel, fu l'unica attrice del cast a non essere presente alla prima del film ad Atlanta a causa delle leggi razziali in vigore all’epoca in Georgia.
Oggi questo stereotipo non è più accettato, eppure gli spettatori continuano a preferire quella versione di Mammy.
Wittgenstein nelle “Ricerche filosofiche” (Philosophische Untersuchungen, 1953), afferma che il significato delle parole è dato dall’uso che se ne fa all’interno delle frasi. Ovvero io mi abituo ad usare una parola in un contesto determinato e attraverso l’abitudine questo uso diventa regola.
Nel nostro caso il dialoghista e il direttore del doppiaggio hanno violato una regola del gioco e questa violazione non è stata accettata dal pubblico.
Questo spiegherebbe come mai si accetti un primo doppiaggio della voce originale, ma non un ulteriore ridoppiaggio.
La spiegazione fondata sull’abitudine però non è sufficiente. Avere questa visione dello spettatore è troppo semplicistica, specialmente in un caso come questo in cui il pubblico ha manifestato la sua volontà così fermamente.
Il fatto è che nel cambio della voce viene messa in gioco un’esperienza molto più forte, quella della perdita di identità.
L’abitudine in questo caso è entrata nel vissuto dello spettatore. Senza una voce marcatamente stereotipa lo spettatore perde un elemento determinante (per quanto non corretto) per la costruzione dell’identità del personaggio. Ed è per questo che lo spettatore è disorientato nella visione ridoppiata.
Non è più questione di abitudine, ma di un vissuto emotivo particolare.

Attenzione allora perché davanti all’acquisto di un dvd di classici dovrete porvi una fondamentale domanda: l’audio italiano sarà quello d’epoca o il film sarà ridoppiato per esigenza del dolby digital 5.1?