Crimes and Misdeameanors (Crimini e misfatti,1989), sta alla base dell’ultimo lavoro cinematografico di Woody Allen. Ovvero uno dei suoi film più avvincenti. Se molti si sono già adoperati nel rilevare le somiglianze narrative tra le due opere, ci interesserà qui sottolineare invece la condizione di prosecuzione che Match Point invera. Di Crimini e misfatti Match Point ripete molte particolari circostanze: in entrambi un uomo sposato ha una passionale relazione con un’amante, che insiste perché l’uomo metta al corrente la moglie del proprio status e la lasci; l’amante viene quindi uccisa dall’uomo, e le indagini della polizia lo scagionano da ogni sospetto.
Così riassunto, il nuovo film di Allen parrebbe essere un quasi-remake. Ma Match Point non è affatto una replica: piuttosto un’altra storia, che però si mette in movimento a partire dalle spiacevoli conclusioni cui Allen giungeva nel film citato. Crimini e misfatti infatti, condizionato dal clima di freddezza e distacco sperimentato nel sottovalutato Settembre (1987), si svolge in un progressivo sentore di congedo di (e da) Dio. I problemi morali vi appaiono assordanti perché vivi sotto gli occhi di grado in grado accecati di un Dio silenzioso, simboleggiato, per non dire “incarnato” - al rischio di blasfemia - dal rabbino Ben. Si perdono progressivamente il senso ed il ruolo della Giustizia, sia umana (l’assoluzione finale è legalmente ingiusta) che divina: il rabbino Ben diverrà non vedente, dunque Occhio Supremo-non-più-supremo, incapace di scorgere e giudicare il male commesso. Ed è da ricordare quanto Allen si sia sempre detto non soddisfatto del film, perché “non abbastanza scomodo”.
Match Point segue la constatazione del silenzio di Dio e di qualsiasi altra istanza morale superiore, la dà per scontata, appunto, fin dalla prima, eccezionale, inquadratura: una palla da tennis che, colpita la rete, potrà cadere o meno in campo avversario, decretando oppure no la vittoria del match.
La Fortuna è tematizzata fin da questo punto, ed introdotta dalla voice over, che la carica delle più pesanti responsabilità: nella vita nessun altra forza ha maggior peso, neppure il Talento.
Ma proviamoci ora sostituire a Fortuna il sostantivo “Caso”. Perché in un universo creato (chissà se…) da un Dio oramai ottenebrato, solo il Caso acquista potenza. E Match Point è appunto la pessimistica dimostrazione di un teorema: una vita gratificata di Casi positivi, sotterra la Giustizia e la Morale. Fino a capovolgere di senso il famoso assunto di Dostoevsky, divenuto modello da confutare: perché, semmai, “il delitto paga, e non trionfa la giustizia”.
Il film è appunto la lineare argomentazione di un teorema, che la (data) irrilevanza di Dio assiomatizza: il protagonista, Chris (Jonathan Rhys-Meyer), quasi attenendosi ad un disegno, si fidanza e sposa con Chloe, una ragazza benestante (Emily Mortimer), conquistando un elevato status sociale. Innamoratosi di Nola (Scarlett Johansson), fidanzata (poi ex) di suo cognato, la seduce. E si divide tra gli obblighi coniugali – non sempre assolti – ed i piaceri extraconiugali. Finché la sua amante, incinta, non esige una decisione: a questo punto la uccide, coinvolgendo nell’omicidio la sua vicina di casa, per meglio simulare una rapina.
Il ponte con l’incipit è dato dalla scena nella quale, all’indomani del duplice assassinio,Chris getta nel Tamigi i gioielli rubati alla vicina: la fede nuziale della donna, sbattendo contro una balaustra, resta sospesa in aria per poi cadere sul terreno, invece che affondare in acqua. Sarà quell’oggetto – non a caso ancora un simbolo di religiosa fedeltà – a scagionarlo da una sicura condanna, quando sarà trovata in tasca ad un malvivente colpevole di una vera rapina nei pressi dell’abitazione dell’amante.
L’assente “scomodità” che Allen rimproverava a Crimini e misfatti è qui raggiunta grazie al particolare della gravidanza di Nola, insistentemente contrapposta alla protratta sterilità di Chloe: si sorride, ma si sorride amaro.
Qualcuno ha visto l’influenza di Hitchcock, nella ricercata suspence della seconda parte della vicenda. Ma Allen si accosta principalmente a Kieslovsky, nella concreta inchiesta intorno ad una Colpa e ad una Giustizia che gli uomini, attratti dalla Fortuna, sono disposti ad accantonare; e a Kafka, così vicino nell’affrescare la boutade della Legge.
E al compianto Petri di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto: anche se qui il protagonista semina inconsapevolmente le prove della propria colpevolezza. Prove certe, ma che un colpo di inaudita Fortuna riesce a mutare di senso, rendendo Chris, proprio in quanto prediletto del Caso Fortunato, “al di sopra di ogni sospetto”.
Match Point si regge su una sceneggiatura sorprendente per la sua solidità, e presenta una regia accurata, come in Allen non si vedeva da almeno dieci anni: anche se il regista, in successive interviste, ha sempre dichiarato che “la storia determina da sola le regole per la regia, o più esattamente, quelle regole risultano da ciò che mi pare più adatto perché quella particolare storia funzioni”. L’uso della musica operistica italiana, ad amplificare la portata ed il senso di scene madri, meriterebbe approfondimenti troppo vasti: ci limitiamo qui ad ammirarla.
Il Caso sembra premiare anche gli errori, le sviste del protagonista: il suo futuro non sembra promettere alcunché di diverso dal duraturo successo. Unica luce siderale al centro di un universo spento di stelle, la Coscienza dello spettatore: il solo (tuttora) vivo arbiter della storia, ultimo Ente (se non supremo) comunque capace ancora di pronunciarsi, con metro morale, sulla vicenda.
Non è un Caso che l’ultimo lavoro di Woody Allen, il primo girato interamente a Londra, si stia rivelando, dopo nemmeno una settimana dall’uscita europea, uno dei suoi massimi successi economici: evidentemente la palla da tennis è caduta sul campo avversario anche per il regista!