In questo momento sono a casa mia, seduta sul mio letto, davanti al mio computer, e sto scrivendo questo nuovo articolo.
O forse no?
Forse io credo di essere in casa mia, seduta sul mio etto, davanti al mio computer a scrivere, mentre in realtà altro non sono che un cervello collegato a un marchingegno elettronico che mi dà, attraverso impulsi elettronici, l’illusione di essere una persona con un corpo, una vita, una casa, un lavoro.
È proprio in questa situazione che si trova Neo, il protagonista della trilogia americana Matrix.
In questo breve articolo mi limiterò al primo film della trilogia, in quanto trovo che da un punto di vista filosofico sia il più significativo e interessante.
Neo una mattina viene contattato e trascinato in una sorta di laboratorio dove gli viene rivelata una verità scioccante: quella che lui pensava essere la sua vita era solo un’illusione, una farsa, il frutto di stimoli inviati al suo cervello da un computer al quale il cervello è, appunto, collegato.
In altre parole, Neo e tutti gli altri esseri viventi sono solo cervelli collegati a computer. Cervelli senza corpo, senza materia, senza una vita. Quando Neo mangia, in realtà non sta realmente mangiando, è solo lo stimolo inviato dal computer al suo cervello che gli dà l’illusione di mangiare; analogamente quando dorme, ama, incontra gente, lavora, etc…
Ogni singolo gesto, azione, sentimento, sensazione che lui crede di compiere o provare è solo uno stimolo proveniente dal computer che nella vera realtà non ha luogo. La vera realtà non è il mondo popolato dagli esseri umani, il mondo con i suoi colori, sapori, odori; la vera realtà sono cervelli collegati a computer.
La regia è troppo action, troppo ricca di effetti speciali. Banale rispetto alla tematica trattata, incoerente e scollegata da essa, troppo “american style”, non dà il giusto rilievo al tema.
Matrix mette in scena sul grande schermo un problema con cui la filosofia si arrovella dai tempi di Cartesio: il dubbio scettico!
Cartesio, a dire il vero, poneva un problema più gnoseologico che ontologico. Questo il suo quesito: “E se tutte le conoscenze che abbiamo fossero opera di un genio maligno che è entrato nella mia mente mettendovi dentro false credenze?”
Lui ne faceva una questione di conoscenza, non di esistenza: le nostre conoscenze potrebbero essere tutte false ma noi, comunque, esistiamo; anzi il solo fatto di porci il dubbio sulla verità o falsità delle nostre credenze, secondo il filosofo francese, è la prova stessa delle nostra esistenza, in quanto per dubitare è necessario pensare e per pensare è necessario esistere; da qui la sua celebre massima “Cogito ergo sum”, penso, quindi, esisto!
Parecchi anni dopo, invece, il filosofo americano Hilary Putnam pose il problema in termini più marcatamente ontologici, costringendoci a rivedere tutte le nostre certezze e soprattutto la certezza basilare: la certezza di esistere.
Questo l’interrogativo di Putnam, da cui Matrix ha preso spunto, “e se fossimo tutti cervelli in una vasca collegati a strumenti che ci inviano impulsi dandoci l’illusione di vivere in quella che noi crediamo essere la realtà?”
Diverse correnti di pensiero filosofiche hanno provato a confutare questa ipotesi, a mettere al tappeto il dubbio scettico trovando una risposta al quesito di Putnam; tuttavia, finora, a mio avviso, nessuno è ancora riuscito a dimostrare che quella che noi crediamo vita sia reale e non frutto di stimoli elettronici.
Il “cogito ergo sum “di Cartesio non funziona, poiché anche il fatto stesso di pensare potrebbe essere un’illusione: io potrei credere di pensare perché il computer cui il mio cervello è collegato mi invia un impulso tale da darmi l’illusione di pensare.
Analogo il fatto che io provi sensazioni, sentimenti, annusi odori, gusti sapori, che io provi piacere o dolore: tutto ciò potrebbe essere il prodotto delle stimolazioni elettroniche inviate al mio cervello.
Interessante, ma non risolutiva, la soluzione contestualista proposta da alcuni filosofi contemporanei tra cui Nicla Vassallo; essi sostengono che non per ogni attività che svolgiamo abbiamo bisogno dello stesso livello di conoscenza e che, pertanto, per svolgere le attività quotidiane cui siamo abituati non ci serve, in fondo, sapere se siamo cervelli collegati in una vasca oppure no.
Questa risposta sembra banale di primo acchito ma, tutto sommato, mi trova d’accordo: io potrei anche essere un cervello collegato in una vasca senza un corpo ma, comunque, nella mia vita quotidiana, reale o illusoria che sia, necessito di mangiare, bere, dormire, lavorare, pagare le bollette, uscire per fare la spesa e così via. Dunque, per vivere la mia quotidianità non ho bisogno di sapere se la mia vita è reale o no, se le mie sensazioni e il mio corpo sono reali o no, il livello di conoscenza che ho di me stessa mi è sufficiente a vivere e stare bene.
A livello gnoseologico, limitandoci quindi alla conoscenza, sono d’accordo; a livello ontologico, ovvero dell’esistenza, il problema resta, tuttavia, inalterato. Io, di fatto, non ho e non posso avere la certezza che in questo momento io “realmente” stia scrivendo questo articolo con le mie mani, seduta sul mio letto a casa mia; tutto ciò potrebbe essere un’illusione e io non lo saprò mai.
Neo è stato, in un certo senso, più fortunato: a lui è stata data una risposta, a lui è stata mostrata la realtà vera; una realtà triste, certo, ma vera.
Neo nel film giunge ad avere delle certezze: ha la certezza di essere un illuso, di non avere un corpo né nulla di ciò che credeva di avere; ha la certezza di non esistere nel modo in cui credeva di esistere, ma almeno ha una certezza.
Tuttavia il primo film della trilogia lascia lo spettatore con un terribile dubbio: e se Neo stesse sognando? Per il protagonista potrebbe cambiare tutto.
Per noi spettatori e lettori di Putnam, tuttavia, a prescindere dalle vicissitudini di Neo, il dubbio scettico permane.