Il dittico composto da Suspiria (1977) ed Inferno (1980) rappresenta la prima reale incursione di Dario Argento nel regno dell'Horror. Un'incursione pesante, convinta, di un'artista oramai completo. Nonostante evidenti accessi - viene in mente la teoria delle porte - sull'irrazionale presenti già nei precedenti film (Profondo Rosso, Sed non Solum), nonché un diffuso e progressivo disinteresse per il plot, Argento si è comunque sempre legato alle leggi del Giallo, almeno fino a Suspiria. Con le quali ha giocato, certo, danzando tra traumi infantili, codici genetici alterati, mosche - e di velluto grigio - impresse nella retina. Ma che comunque ha sempre seguito: magari estremizzandole, fino quasi a denunciare l'ossatura stessa dello schema seguito. Si pone qui il classico finale alla maniera di, che implica l'agnizione, il riconoscimento dell'assassino, e dunque la sua morte, necessaria per ristabilire un ordine bilanciato. O, magari, solo un presente bilanciato. Ché per l'ordine c'è tempo.

La discesa di Argento nel mondo dell'orrore è repentina, un maelstrom viscoso e affascinante avvolge lo spettatore, e risulta inutile cercare di individuare la sottile linea di separazione tra il reale e l'irreale. Argento non descrive due mondi, ma un unico universo di opposti compenetrati: il regno dell'ambiguità. Alla base, l'ispezione delle origini stesse del male. I due film, in realtà orfani ancora di un terzo capitolo, probabilmente in testa ai futuri progetti del regista, stando almeno alle ultime dichiarazioni, descrivono Friburgo, New York e (in parte) Roma come i luoghi assunti dalle tre Madri, Suspiriorum, Lacrimarum, Tenebrarum, come loro sede. Dunque un viaggio alle fondamenta stesse del male, anche fuor di metafora, se si pensa a come i due film siano caratterizzati da un movimento verso il basso, di discesa: dopotutto ''la terza chiave è sotto la suola delle tue scarpe'', recita un passo del libro di Varelli citato più volte in Inferno, denuncia in chiaro di quanto sopra descritto.

L'innovazione proposta da Argento va oltre il superamento delle leggi del Giallo, ed il conseguente ingresso nel regno dell'Horror: con Suspiria egli disfa totalmente il concetto stesso di plot: Pugliese ha osservato come “il primo e l’ultimo quarto d’ora del film sono l’esibizione di un vuoto spinto del racconto dove è possibile accumulare qualsiasi imprevisto”. E non si vada a fraintendere intorno all’uso del sostantivo vuoto: che non vuole, e non deve essere inteso, con connotazioni negative. D’altronde, torna alla mente la polemica intorno al cinema di Antonioni, descritto da qualche critico di seconda mano “cinema dei tempi morti”: laddove i tempi morti, come il vuoto, mutatis mutandis, nel nostro caso, sono la reale novità proposta: coraggiosa scelta di mostrare, rendere cinematografabili, i momenti reali di cui è composta la vita.
Non si dà una trama nel film, oltre quella riconducibile ad una grezza impalcatura: gli accadimenti, imprevisti appunto, si registrano. Una nuova forma di camera - stylo. Vengono in mente le parole di Bazin su Paisà: quelle “immagini-fatto” poste al vertice della modernità del cinema, e del neorealismo. Argento vi arriva partendo, e attraversando territori diametralmente opposti, che rifiutano il mondo cosiddetto reale: oltre il quale, appunto c’è un’altra realtà, ben esemplificata dalla scena nella quale Susy, osservando un oggetto lucido in mano ad una signora nel corridoio della scuola, rimane intontita dal raggio di luce prodotto, fino a svenirne. Per costruire questa realtà, per scandagliarla, Argento attinge comunque alle leggi del “reale comune”: la realtà altra è governata da fatti, cose che avvengono per il semplice gusto di accadere, di mostrarsi. Ma che non sottostanno ad una concatenazione, foriera di un senso sempre aggiunto, e non assumono mai - solamente - il valore di tappe nel percorso di Susy Bannon. Diviene praticamente impossibile trovare una direttrice concatenante i vari eventi. Si possono prendere in considerazione due situazioni: l’invasione dei vermi, il finale del film. Nel primo caso, la misteriosa pioggia di vermi sui capelli delle ragazze, preludio all'attenzione verso il molto piccolo che sfocerà in Phenomena, conduce lo spettatore verso varie ipotesi, tutte comprese nella sfera dell’irrazionale. In realtà Argento spiega tutto razionalmente: i prodotti avariati collocati in soffitta, proprio a piombo sopra il piano delle camere, ne sono la causa. Non c’è dunque un maleficio e, soprattutto: questo fatto, certo destabilizzante, non ha davvero niente a che fare con gli omicidi ed i sospetti di stregoneria che avvolgono le insegnanti della scuola di danza. E’ un fatto. Stop. Come tale Argento ce lo mostra, proprio perché accaduto durante il tempo narrato dal film, e non oltre. E perciò – e non nonostante questo – ci interessa: come una delle cose strane che accadono nella vita. Nel finale, invece, la scoperta della verità, non avviene grazie a Susy ma, verrebbe da dire, nonostante lei: è una serie discontinua di fatti e coincidenze a portarla alla chiave: un fiore di iris blu su una parete, meccanismo di apertura del passaggio segreto tanto cercato. Una chiave nemmeno poi tanto nascosta, visto che Susy aveva avuto l’incontro con la prima vittima all’inizio del film, giungendo alla scuola di danza dall'aeroporto, e già aveva sentito da questa come venire a conoscenza del tremendo segreto: ''Iris…gira quello blu…''. E si sa, imparare è ricordare, ed i fatti che coinvolgono la protagonista non fanno altro che risvegliarle un guizzo di memoria. Ancora alla maniera della vita.

Per ideare il film, Argento attinge a piene mani al fiabesco: si parla, per Suspiria, dell’ispirazione nata da una fiaba di Wedekind. Una voce fuori campo, la stessa del regista – espediente che si ripeterà poi in Inferno, Tenebre, Phenomena, Opera -, dà inizio alla vicenda., stabilendone presto i precisi confini, interni al regno del favoloso: il piccolo brano che ci presenta Susy, giunta appena – la conosciamo all’aeroporto – dagli Stati Uniti a Friburgo, non è altro che il “c’era una volta”, incipit classico di innumeri fiabe, camuffato dal moderno. Anzi, il narrato è ascrivibile alla categoria del postmoderno, attingendo evidentemente a categorie passatiste che vengono immesse nel presente. Come osservato da Bettelheim, il brano che inizia la fiaba, situa questa in una dimensione di indeterminatezza che la rende oggettiva: Susy diviene il nostro tramite di interiorizzazione del fiabesco narrato. Un mondo perfettamente caratterizzato, le scenografie ed il decor sono indimenticabili, eppure volutamente indeterminati: lo spettatore deve potersi immergere e smarrire al suo interno. Ed è questa una conseguenza ed una maturazione dell'indeterminatezza dei luoghi già presente nei precedenti film del regista: l'espediente del mix Roma - Torino in Profondo Rosso ne è un esempio.
La fiaba che Argento ci racconta è fatta di paura, angoscia, sangue. Niente di strano in questo: ricorda una famosa affermazione di Franz Kafka: “Non esistono fiabe non cruente. Tutte le fiabe provengono dalla profondità del sangue e dell’angoscia”. Qualcuno, erroneamente, situa la genesi del film nel filone, per dirla con Pugliese, “Esorcista & Co.” in voga in quegli anni. Niente di più falso: anzi, il film di Argento è semmai una dichiarazione di distanziamento proprio da quella tendenza spesso modaiola: al centro della dimensione magica proposta dal regista sta il gotico: non a caso la scelta della Germania. Ovvero la rivisitazione personale di questo, e del cinema che lo ha reso famoso: l'Espressionismo tedesco, fortemente presente nelle scelte scenografiche come nelle inquietudini dei personaggi. Ed almeno in una delle attrici: Joan Bennet, la Strega Nera, presente ne La donna del ritratto di Fritz Lang. La fiaba è sempre un percorso di iniziazione, un viaggio al termine del quale c’è una crescita: per questo l’eroe è sottoposto a prove durante il suo cammino. La fiaba raccontata da Argento ha per protagonista una ragazza. Susy è in terra straniera fin dalla prima inquadratura del film: vomitata da un aereo in un aeroporto ostile – la porta a scorrimento automatico, cui fa da pendant la porta a vetri che ostacola la fuga di Sara in Inferno; l’acqua scrosciante di una fontana, amplificazione minacciosa della pioggia torrenziale, sono già segni di terrore – è trasportata da un taxi presso l’Accademia di danza dove andrà a studiare. Di nuovo Inferno duplicherà questa figura introducendo un altro viaggio in taxi, quello di Sara: i due tassisti, entrambi silenziosi, angosciosamente muti, nel tempo che precede l’omicidio, il rito sacrificale, si rivelano due Caronte, impegnati nel loro tragico compito di traghettare anime innocenti verso il loro destino.
Come quasi sempre accade, il contenuto intrinseco della fiaba narrata è di matrice sessuale: il percorso di Susy è anche una metafora della crescita vista come avvicinamento al mondo del sesso: l’iniziale ammirazione per il giovane ballerino interpretato da Miguel Bosè, caratterizzata da sguardi dolci e timidi, evidenzia l’immaturo rapporto della ragazza con la sfera sessuale. Il percorso, il segreto che lei scoprirà, in una stanza nascosta, che si apre grazie alla roteazione di un fiore: tutto questo allude, nemmeno troppo velatamente, alla sfera del sesso. E, si badi bene, Susy riesce a compiere il suo percorso comunque mantenendo intatta la propria purezza, la propria verginità. Varrà lo stesso in Phenomena, dove Jennifer, l'eroina, dovrà immergersi in un putrido liquido cadaverico, visualizzazione del male, ma ne uscirà ancora pura e pulita.
Ed il disegno messo in atto evidenzia la volontà di rappresentazione di più fiabe, accortamente rivisitate: Barbablù, intanto. E Biancaneve: la scuola di danza, specialmente nell'ultimo quarto del film, si trasforma nel castello di Grimilde, ed opera un perfetto transfert sull'eroina della nostra storia, ''trasferendone quasi alla lettera le fattezze nel volto attonito fin dal primo istante di Jessica Harper''.

Suspiria è il trionfo della regia: nel film Argento adotta più volte punti di vista impossibili: emblematico è in questo senso il primo dei delitti. La giovane ragazza guarda fuori dalla finestra, scorgendo due occhi orribili, sospesi nel nulla. Situati in un altrove indefinito, forse dietro il velo – schermo cinematografico che Sara squarcerà in Inferno con il proprio corpo morente. L’impossibile sguardo prende forza nel momento in cui la macchina da presa si situa fuori, osservando la ragazza dallo stesso punto indefinito: il medesimo dal quale un braccio orrendamente ricoperto di peli fracasserà il vetro della finestra, agguantando la giovane vittima. In Suspiria Argento mette in atto l’equazione guardare = morire, già presente almeno in tre dei precedenti film: uno fra tutti, Il gatto a nove code, che contrappone magistralmente gli insistiti dettagli dell'occhio felino dell'assassino alla cecità dell'improvvisato investigatore: e non a caso sarà il primo dei due a soccombere. La prima vittima è terrorizzata ed incuriosita dal sentore di presenza che avverte. Perciò è punita: per avere osato guardare il maligno direttamente negli occhi. Argento confonde le idee, mescola le carte: inquadra la ragazza di spalle, convince lo spettatore di una soggettiva dell’assassino, spesso presente nel suo cinema: ed invece il braccio dell’omicida irrompe da fuori. Ed è chiaro il messaggio allo spettatore: niente è come si pensa. Il folle controcampo, a questo punto, conferma la volontà di rappresentazione della orrida inesorabilità della morte ad ogni costo: da adesso in avanti la macchina da presa potrà situarsi ovunque. E non sarà secondario insistere anche sulla coreografizzazione dei delitti operata dal regista: la danza ispira due volte l'opera, le perfide insegnanti della scuola prestano la stessa attenzione ai passi eseguiti dai propri allievi e all'incedere tragico dei delitti. Così giungiamo all'uccisione della ragazza, interpretata da Stefania Casini: intrappolata in un labirinto strano di stanze, prima di tentare la fuga, questa si accuccia fino a raggiungere una posizione fetale: la morte come regressione ad uno stato prenatale, come una nascita al contrario: l'assassino - chirurgo ucciderà la sventurata con un taglio netto, e l'insistito dettaglio del macabro particolare conferma la teoria da noi sposata: su di lei agisce un cesareo mortale.

Un ultimo accenno al formidabile uso degli animali in Suspiria: dell'invasione dei vermi abbiamo già parlato. Basti aggiungere un'osservazione sul sonoro che accompagna questa sequenza: dal rumore prodotto dalle scarpe di Miss Tanner, che camminando schiaccia i vermi, fino alla musica, che riproduce l'idea del brulicare di questi animali. Come non avvicinarvi la sequenza del cane che sbrana il cieco interpretato da Flavio Bucci, sequenza di meraviglioso dosaggio della suspense, e di inganno dello spettatore, convinto da Argento della presenza di un altrove dal quale scaturirà la minaccia. Sarà invece il cane ad attaccare alla gola il padrone, vittima sì di un sortilegio, ma anche esecutore di una morte premeditata: il cane di Tenebre e lo scimpanzé di Phenomena fanno parte della stessa famiglia. Lo stesso vale per il pipistrello che assale improvvisamente Susy il cui sangue, che macchia l'asciugamano all'interno del quale è ucciso, si fa specchio rivelatore del paravento costituito dalla scuola di danza.