…immoto andare, oh troppo noto
delirio, Arsenio, d’immobilità…

Eugenio Montale, Arsenio

Johnny Marco, protagonista dell’ultimo film di Sofia Coppola, Somewhere, (meritato) leone d’oro all’ultima mostra del cinema di Venezia, è un divo infelice. Vive a Los Angeles, tra provini, interviste improbabili, conferenze, avventure occasionali, in una stanza dell’hotel Chateau Marmont, quello di Marylin e della morte di John Belushi. Questo finché la figlia Cleo, che abitualmente vede nei fine settimana, non irrompe nella sua camera e nella sua vita, scaricata dalla madre: e lo costringe a porsi domande, ad uscire dalla circolarità della propria vita.

La trama, essenziale e, se vogliamo, déjàvu, non rende giustizia al film, che ha nella rarefazione, nella coazione alla ripetizione, la sua cifra di valore, stilistico ed estetico. Assieme alla rappresentazione insistente di un’unica figura geometrica - il cerchio - elevata a metafora del vuoto. Sarà attorno a queste due tematiche, non ancora prese ad esame dalla critica, che si concentrerà il nostro intervento.
Al centro del film, c’è un momento che ci piace assumere come principio della nostra analisi: Johnny Marco, un convincente Stephen Dorff, si reca presso uno studio per una prova make up. Poco dopo, immobile e solo al centro della stanza, e dell’inquadratura, lo osserviamo con il volto completamente ricoperto di lattice bianco, due piccoli fori applicati sulle narici. Un lento e lungo zoom lo avvicina gradualmente. Vediamo un mostro, sbucato da qualche posto, dal limbo del somewhere, appunto. La maschera di lattice non è altro che il bozzolo dentro il quale il giovane attore dimora: può respirare (e nel respiro sta la vita vuota), e ciò gli assicura di non morire, di sopravvivere, non di vivere. Raramente, negli ultimi anni, abbiamo visto un regista riuscire ad ottenere una descrizione egualmente efficace della solitudine, dell’alienazione, tramite una sola inquadratura, per giunta priva di dialogo. L’inquadratura successiva ce lo mostra, a make up ultimato, truccato perfettamente da vecchio.
E se questa a prima vista potrebbe apparire una facile metafora – il protagonista è già anziano – in realtà ciò che la regista ci vuole sussurrare è più inquietante: anche questa non è che una maschera, di un uomo dal volto oramai grattato via, come in un quadro di Francis Bacon.

Come in Lost in Translation, Sofia Coppola torna a parlare di contraddizioni. La vita dell’attore, che tutti penserebbero di potere invidiare, è un vuoto da riempire. Ma che il protagonista colma di non-pieni, di altri vuoti che hanno solo nella loro iterazione, sarcastica e contemporaneamente inquietante, la loro ragione di essere e sembrare, comunque, soddisfacenti.
Non a caso il film, spiazzando subitaneamente lo spettatore, si apre proprio con un vuoto, un non-agire, e la sua ripetizione: una Ferrari nera percorre più volte una pista ellittica. L’azione del percorrere è svuotata dalla ripetizione del percorso, mutata in inazione: il senso del viaggio è annullato, dato che non si ha una meta, ma nemmeno si viaggia alla ricerca di quella. Si entra in un loop. In un “immoto andare” di montaliana memoria.
L’auto esce spesso dall’inquadratura, ma la macchina da presa è immobile, non la segue, non la cerca. Tanto il fuori campo non desta la curiosità del pubblico: basta attendere, e di nuovo l’auto sarà in scena. Ovviamente, in scena. Il cinema si limita a registrare, passivamente, un accadere. Parlare di Antonioni, di Ozu, è ovvio. Ma in questa anomala ouverture cogliamo anche una dichiarazione d’amore ad un cinema tutto europeo, e poco americano (Wenders, Haneke, o Van Sant, come non pensare al movimento quasi ipnotico degli skeatboarder in Paranoid Park), e di intenti allo spettatore, probabilmente spiazzato dal non-senso di ciò che sta vedendo.

Si rappresenta la maledizione di cui il protagonista è vittima: la coazione a ripetere. Disteso sul letto, osserva le vacue acrobazie di due lapdancer gemelle (ma duplicare un’azione vuota non significa darle sostanza). Le interviste, agghiaccianti nella loro vacuità, si ripetono identiche nelle domande e nelle situazioni. Come le liaison con l’altro sesso. E le donne abbondano in questa pellicola: sono ovunque (everywhere, e non più somewhere), bellissime, disponibili. La meccanica sessuale è la riduzione del protagonista ad un automa: lo spasso del momento nel quale Johnny si addormenta mentre sta praticando del sesso orale alla sua partner, lascia presto il posto ad una diffusa tristezza, cui fa da pendant la scena di sesso durante la quale il nostro “eroe” si dimentica il nome della partner. In questo senso, la Coppola oltrepassa la boa del femminismo, per includere l’intero genere umano nella sua visone di noia.
Parlavamo di vita circolare del protagonista: Somewhere assume il cerchio (o la sua variante ellittica) a figura – più o meno evidente, certo – architettonica e strutturale privilegiata. Il film inizia con un auto che si muove in cerchio. Le ballerine ruotano intorno al palo. I “nonviaggi” del protagonista partono ed arrivano sempre al solito punto, l’hotel. E sul percorso si incontrano sempre le stesse cose, mixate in sequenze nemmeno poi così tanto diverse l’una dalle altre: donne, interviste, provini, telefonate, messaggi sul cellulare.

Il finale del film, al contrario di quello che hanno scritto molti critici, non è senza speranza, non è un ennesimo salto nel vuoto. Il protagonista, salutata la figlia, lasciato l’albergo, sale sulla Ferrari nera (il nero, altro vuoto, colore in assenza di colori) e abbandona la città. Per la prima volta, non più senza meta, ma alla ricerca di una meta. Giunto in una strada bianca, scende dall’auto. Abbandona l’ultima protezione. Ed inizia a camminare: finalmente in linea retta. Il film si conclude qua. Ma lo squarciarsi del cerchio, la linea retta individuata dal protagonista, che, finalmente, procede in avanti, sono il segno tangibile del cambiamento, anche infinitesimo, ma concreto.
Qualcuno ha notato che manca la redenzione tipica dell’ultimo Eastwood. O la violenza di un Tarantino. Ma ci piace poter dire, senza riserve, che è proprio questa la forza di Sofia Coppola: il tono lieve, pacato, il costruire in sottrazione.